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a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

CONSOLIDAMENTO

Dopo il rosa il grigio, ma molto chiaro

I festeggiamenti per la svolta della Fed sono terminati. Sono durati più di due mesi e sono stati legittimi, ma a un certo punto si doveva tornare alla normalità. Si aggiunga che, durante le celebrazioni di fine dicembre, gennaio e febbraio sono state organizzate anche feste, a dire il vero premature, per lo scampato pericolo di una Brexit dura (e, in certi momenti, perfino con l’idea che il Regno Unito avrebbe cambiato idea e accettato di rimanere nell’Unione Europea).

I festeggiamenti per la svolta della Fed sono terminati. Sono durati più di due mesi e sono stati legittimi, ma a un certo punto si doveva tornare alla normalità. Si aggiunga che, durante le celebrazioni di fine dicembre, gennaio e febbraio sono state organizzate anche feste, a dire il vero premature, per lo scampato pericolo di una Brexit dura (e, in certi momenti, perfino con l’idea che il Regno Unito avrebbe cambiato idea e accettato di rimanere nell’Unione Europea). E feste ancora più grandiose sono state promosse per l’andamento positivo delle trattative tra Stati Uniti e Cina, in un clima di attese sempre più alte incoraggiate da Trump e dai suoi. A un certo punto si è dato praticamente per scontato che l’accordo tra i due paesi, accanto a concessioni cinesi su tecnologia e stabilità del cambio, avrebbe portato non solo all’annullamento degli aumenti tariffari annunciati ma anche a una riduzione di quelli esistenti prima dell’inizio dello scontro.

Tutto preso dalla gioia di essere vivo (e alimentato nel rialzo dal riposizionamento di tutti quelli che avevano alleggerito troppo durante il ribasso), il mercato ha guardato distratto i segnali di rallentamento dell’economia provenienti da ogni angolo del mondo e ha dato per scontato che le misure di sostegno decise via via dalle banche centrali (e dal governo cinese) fossero un dono dal cielo e non, come invece erano, il tentativo di arginare un deterioramento del quadro macro tuttora in corso.

Sembra quindi fisiologico e sano che il recupero delle borse si sia fermato e che sia iniziata una fase di consolidamento. Con un rialzo mozzafiato del 20 per cento dai minimi in poche settimane un assestamento ci sarebbe stato comunque. Se a questo si aggiungono una Brexit tornata poco prevedibile nei suoi esiti e un negoziato con la Cina estremamente impegnativo (anche se al momento impostato costruttivamente) il consolidamento diventa un passaggio obbligato.

Il mercato dà un’importanza enorme ai negoziati con la Cina e non c’è dubbio che un quadro più definito e un clima meno conflittuale con l’America darebbero impulso a una ripresa degli investimenti su scala globale. È però ingenuo pensare che tra Stati Uniti e Cina possa scoppiare la pace così come a un certo punto era scoppiata la guerra. Quello che si è aperto è infatti uno scontro prolungato che segnerà i prossimi decenni e avrà versanti non solo economici, ma anche strategici e militari. Questo scontro va visto come un continuo, con fasi calde e fasi fredde, non come un episodio che si concluderà con la firma di un accordo. Contenere e ritualizzare il conflitto sarà naturalmente importante, ma le occasioni di frizione saranno continue (pensiamo, oggi, al 5G, alla Corea o al Venezuela, solo per fare qualche esempio). La tentazione cinese di non rispettare gli accordi e quella americana di introdurre tariffe o boicottare l’alta tecnologia cinese saranno costanti.

Alla fine, dunque, a decidere dove andranno i mercati una volta terminata questa fase di consolidamento (che potrebbe prolungarsi fino a metà anno con un andamento sostanzialmente laterale) sarà il grado di salute dell’economia globale.

Fino a questo momento il rallentamento ciclico è stato attribuito dai mercati a cause ad hoc. Per l’America si insiste sulla chiusura di una parte della pubblica amministrazione durante lo scontro di gennaio tra Trump e i democratici. In Europa si dà la colpa alle vicende dell’auto tedesca (uscita accelerate dal diesel, adeguamento ai nuovi standard ambientali). In Cina si cita il lavoro di pulizia nel settore del credito. Trattandosi di problemi circoscritti, si argumenta, basta avere un po’ di pazienza per vederli presto uscire di scena e per misurare l’effetto delle misure di rilancio.

Qui suggeriamo una certa prudenza. È probabilmente vero che il peggio del rallentamento è alle spalle, ma nessuno può esserne certo. Lo shutdown negli Stati Uniti è terminato da un pezzo, ma l’economia, in questo primo trimestre, appare ancora in affanno, ben più che nell’ultima parte dell’anno scorso. In Europa è la Bce stessa, che fino a ieri aveva minimizzato i problemi, a sottolineare i rischi del quadro congiunturale. Infine in Cina i problemi vanno ben al di là del credito.

Soprattutto, sono ancora da misurare gli effetti dei rialzi dei tassi americani del 2018, decisi sull’onda di un boom trascinato dalla riforma fiscale e che però si riverberano oggi su un’economia molto meno brillante.

Nonostante difficoltà e problemi scommettiamo su un graduale miglioramento del quadro globale, in particolare nella seconda metà dell’anno. Le banche centrali si sono tenute da parte altre misure espansive, nel caso dovessero servire. La Fed potrà anticipare ulteriormente la fine del Quantitative tightening, la Bce potrà prolungare ulteriormente la guidance sui tassi, la Banca del Giappone potrà agire sul Qe e la Cina sul credito. Non necessariamente grandi cose, ma un utile fine tuning.

Nel frattempo, mentre il 2019 si profila relativamente stabile, l’epico scontro politico del 2020 in America si arricchisce ogni giorno di nuovi elementi. Michael Bloomberg ha annunciato che non si candiderà alla Casa Bianca. Il candidato unico dell’establishment democratico sarà dunque Biden, che si troverà però di fronte, durante le primarie, numerosi contendenti della sinistra radicale. Un elemento importante della campagna di Biden sarà l’introduzione di una tassa su tutte le transazioni finanziarie, nessuna esclusa, dello 0.1 per cento. È già data per scontata dagli stessi proponenti una forte caduta degli scambi sui mercati finanziari.

Gli altri candidati democratici, come è ben noto, hanno proposte ben più radicali, ma ancora poco definite. È quindi presto per stabilirne l’impatto su crescita e borsa, ma il fatto che ci sia un elemento comune di repressione finanziaria (tassi artificiosamente bassi) e di forte o fortissima espansione fiscale fa pensare già oggi a una pressione al ribasso sul dollaro come effetto delle loro politiche. L’anno prossimo a quest’epoca molti ricchi americani si porranno il problema di dove trovare un’alternativa al dollaro. Non essendo le altre valute particolarmente attraenti, alcuni si rivolgeranno all’oro.

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