L’aneddotica corrente sulla Cina, in Occidente, è da qualche anno molto negativa. Prima i dubbi sull’origine del Covid, poi quelli sulla sua gestione. Gli stimoli all’economia, puntualmente eccessivi, spesi male oppure inadeguati, mai corretti. Le interferenze della politica sulle banche e sulle grandi imprese pubbliche e private, sempre negative. La bolla immobiliare, trascinata negli anni fino ad assumere proporzioni macroscopiche e poi abbandonata a sé stessa tra ondate di fallimenti.
L’aneddotica corrente sulla Cina, in Occidente, è da qualche anno molto negativa. Prima i dubbi sull’origine del Covid, poi quelli sulla sua gestione. Gli stimoli all’economia, puntualmente eccessivi, spesi male oppure inadeguati, mai corretti. Le interferenze della politica sulle banche e sulle grandi imprese pubbliche e private, sempre negative. La bolla immobiliare, trascinata negli anni fino ad assumere proporzioni macroscopiche e poi abbandonata a sé stessa tra ondate di fallimenti.
E poi, ancora. La borsa perennemente deludente. La Via della Seta in crisi. La fiducia delle famiglie e delle imprese, un tempo elevata, oggi bassa. L’indebitamento insostenibile degli enti locali e la crescita continua del debito complessivo. La tecnologia con le unghie tagliate dalle sanzioni. La crisi demografica galoppante, con il tasso di fertilità sceso recentemente addirittura sotto l’unità, con conseguente dimezzamento della popolazione a ogni generazione. I giovani laureati e superqualificati che non trovano lavoro.
Se però si va a guardare il dato aggregato, si vede che nei tre anni della pandemia (2020, 2021, 2022) il Pil cinese è cresciuto complessivamente del 13.3 per cento. Negli Stati Uniti è cresciuto meno della metà, ovvero del 6.1 per cento. In Eurozona del 2.9. Se poi consideriamo il biennio postpandemico 2023-24 (per il 2024 prendiamo le previsioni ufficiali), la crescita cinese è del 10 per cento, quella americana del 4.1 e quella europea dell’1.8.
Dall’inizio del 2020 alla fine di quest’anno la Cina sarà riuscita a crescere anche più dell’India, un paese percepito come in pieno boom (23.3 per cento in Cina, 22 in India). La distanza tra i due paesi sarà dunque cresciuta ulteriormente, anche se forse per l’ultima volta, considerando che l’India godrà nei prossimi decenni di una stabilità demografica.
Molti osservatori storcono il naso quando commentano le statistiche cinesi e affermano che sono gonfiate. Lo fanno generalmente quando i dati sono forti e spesso non portano motivazioni per la loro tesi. Quando i dati sono negativi la loro correttezza non è mai mesa in dubbio. I pochi che si fanno carico di ricostruire il Pil cinese partendo da dati grezzi meno manipolabili come il consumo di energia o partendo da dati non cinesi come le importazioni dalla Cina che arrivano in Occidente, stimano una crescita molto vicina a quella delle statistiche ufficiali di Pechino.
Più incisive sono le critiche al modello di sviluppo cinese, fortemente sbilanciato sugli investimenti e troppo dipendente dalle esportazioni da una parte e dal debito dall’altra. Sono effettivamente questi, insieme alla demografia, i veri punti deboli del sistema cinese.
C’è però una logica in queste scelte strategiche. Fino a qualche anno fa si trattava di fare decollare a tutti i costi l’economia, di inurbare 20 milioni di persone ogni anno e di garantire crescita e lavoro per tutti come fonti di legittimazione per i 98 milioni di membri del partito che costituiscono l’élite dirigente. Dalla fine del decennio scorso, a queste motivazioni si aggiunge la volontà di costruire un apparato militare in grado di gestire conflitti anche molto ampi. Questo richiede un forte impulso alla tecnologia, ma anche il sostegno a tutti i settori manifatturieri, senza escluderne nessuno, in modo da acquisire un’indipendenza quasi completa sul piano strategico.
Se dunque gli investimenti sono distorti da logiche geopolitiche, la loro destinazione, orientata oggi sulla tecnologia, è meno irrazionale di quando l’immobiliare assorbiva una larga parte dei risparmi privati.
Perché allora la debolezza delle borse cinesi? Una ragione storica (condivisa con altri paesi emergenti come il Vietnam) è la presenza ingombrante nei listini di grandi banche e imprese pubbliche utilizzate dal governo come cinghia di trasmissione della politica economica e spesso poco profittevoli. Una seconda ragione è la presenza nelle borse di una tecnologia di consumo che è stata negli ultimi anni oggetto di attacchi politici, mentre è sottorappresentata la tecnologia a sfondo militare che è invece fortemente sostenuta dal governo. Una terza ragione è la crisi immobiliare, che oltre a coinvolgere le società del settore, ha creato un clima di sfiducia negli investitori privati. L’ultima ragione è la massiccia fuga degli investitori occidentali, una fuga che per molti di loro è vissuta come definitiva.
Ha allora senso investire oggi sul mercato finanziario cinese? La risposta non può essere certa. Da una parte c’è un paese che continua a crescere con una moneta sottovalutata e una borsa a buon mercato. Dall’altra ci sono rischi geopolitici che includono la possibilità di sanzioni contro gli investitori esteri.
Diverso il discorso sull’influenza che la Cina avrà nel 2024 sul ciclo economico globale. Un’influenza molto positiva, data da una crescita del 5 per cento e da un forte contributo alla battaglia contro l’inflazione, che in Cina non esiste.
Venendo all’attualità, i mercati hanno iniziato l’anno all’insegna di una cautela costruttiva. Alla moderazione dei toni hanno dato un importante contributo le banche centrali con messaggi che invitano i mercati alla pazienza sui tassi. Le attese di tagli hanno iniziato a ridimensionarsi e continueranno a ridursi nelle prossime settimane, anche per un’inflazione che non si dà vinta, un mercato del lavoro di difficile lettura e dati macro con una forte dispersione tra segni di forza e segni di debolezza (con i primi ancora prevalenti).
Il paradigma del mercato, quello della disinflazione immacolata, non è cambiato ed è molto solido. Ci sarà qualche tentativo di testarlo con modeste incursioni al ribasso, ma la tendenza di fondo rimarrà laterale, non negativa, in questi primi mesi dell’anno. La ripresa del rialzo è solo rinviata e non di molto.
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist del Gruppo e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.