L’idea della seconda ondata di Covid nasce dall’esperienza delle pandemie di influenza del 1918-19 (da 50 a 100 milioni di morti, a seconda delle stime), del 1957-58 (due milioni di morti) e del 1968-69 (un milione di morti). Nei tre casi, il virus si presentò in inverno, sembrò ritirarsi in estate e si ripresentò in forza nell’inverno successivo, in forma ancora più terribile nel 1919 e leggermente attenuata negli altri due casi.
L’idea della seconda ondata di Covid nasce dall’esperienza delle pandemie di influenza del 1918-19 (da 50 a 100 milioni di morti, a seconda delle stime), del 1957-58 (due milioni di morti) e del 1968-69 (un milione di morti). Nei tre casi, il virus si presentò in inverno, sembrò ritirarsi in estate e si ripresentò in forza nell’inverno successivo, in forma ancora più terribile nel 1919 e leggermente attenuata negli altri due casi.
Tre pandemie sono un precedente significativo, ma non sono abbastanza per fare una regola. Per restare nell’ambito dei coronavirus, la Sars è durata tre anni e la Mers ha colpito nel 2012, 2015 e 2018. E la stessa influenza del 1968-69, più che un nuovo ciclo, è stata in realtà un ritorno di quella di dieci anni prima. Come si vede, ogni pandemia fa storia a sé.
Quanto a Covid, sui media di questi giorni si fa ampio uso del concetto di seconda ondata già in corso con riferimento ai paesi, come la Francia, che registrano di nuovo lo stesso numero di casi di marzo-aprile. Se la mortalità è più bassa, si dice, è per via delle cure nel frattempo migliorate e delle diagnosi più precoci. Tutto questo è vero, fortunatamente, ma il paragone con la prima ondata è improprio, perché il numero di casi fu allora largamente sottostimato. Mentre allora si testava solo una piccola parte dei soli sintomatici, oggi si testa anche una grande quantità di asintomatici.
In pratica, se il prossimo inverno Covid dovesse presentarsi davvero con la stessa virulenza dei primi mesi del 2020, il numero dei casi censiti risulterebbe questa volta molto superiore, tanto da rendere difficile per i governi non ripristinare quei lockdown generalizzati che si sono fermamente ripromessi di evitare. In particolare Biden, dovesse entrare alla Casa Bianca il 30 gennaio, troverebbe difficile non chiudere almeno parzialmente l’economia dopo avere criticato duramente Trump per averla chiusa troppo poco.
C’è poi un altro aspetto preoccupante, dal punto di vista delle economie e dei mercati. Benché si sia iniziato a parlare già in primavera di seconda ondata nell’inverno prossimo, nessuna delle previsioni macro in circolazione (da cui derivano le stime sugli utili e quindi sulle borse del 2021) ne tiene conto. Tutte le stime, infatti, ipotizzano una ripresa graduale e regolare, trimestre dopo trimestre. La cosa è comprensibile. Non potendo nessuno prevedere come muterà il virus e come evolverà la pandemia, non si è caricata nessuna ipotesi nei modelli. Lo stesso hanno fatto i mercati, che di fatto navigano a vista senza prezzare i rischi per un inverno che appare ancora lontano.
La spiegazione per questo atteggiamento è offerta anche dall’attesa dei vaccini, vissuti da mesi come la soluzione finale del problema, il momento in cui si potrà girare pagina e chiudere per sempre questa triste esperienza. La realtà sarà però molto più sfumata. I criteri di approvazione dei vaccini non sono particolarmente severi. Basta che creino immunità per qualche tempo in almeno metà dei vaccinati. Se questi saranno, mettiamo, il 50 per cento della popolazione, vuol dire che solo il 25 per cento sarà davvero protetto. Un grosso passo avanti, certamente, ma non tale da permettere la riapertura generalizzata delle economie. C’è anche da considerare l’ipotesi, per concludere con le brutte notizie, che il virus muti e renda inefficaci i vaccini. Finora non è successo, ma non abbiamo certezze per il futuro.
È legittimo dunque chiedersi se, nello scenario peggiore di un’autentica seconda ondata, ci siano ancora strumenti di policy per sostenere economie e mercati con la stessa efficacia che abbiamo visto fin qui. La risposta è per fortuna largamente positiva, ma ci sono alcune importanti avvertenze.
Cominciamo dalla politica monetaria. Nella cassetta degli attrezzi troviamo, in ordine crescente di efficacia, la continuazione del Quantitative easing in corso in Europa e in America, l’ampliamento del Qe e l’introduzione di tassi negativi profondi. La continuazione del Qe in corso, di proporzioni imponenti, non è messa in discussione da nessuno e smentisce l’idea che le banche centrali, dopo le grandi misure dei mesi scorsi, non stiano facendo più niente.
L’ampliamento del Qe, dal canto suo, è sempre possibile. Non esiste un limite teorico all’ampliamento delle dimensioni del bilancio delle banche centrali e in ogni caso, anche se ci fosse, la Bce e ancor più la Fed sono ben lontane dai livelli cui si sono spinte la Banca del Giappone e la Banca Nazionale Svizzera, finora senza particolari conseguenze negative. Negli anni scorsi era diffusa l’idea che riempire una banca centrale di titoli comporta il rischio che una loro eventuale caduta di prezzo si mangi il capitale della banca e la mandi a equity negativa. Oggi non lo pensa più nessuno perché sappiamo che in regime di fiat money la banca centrale può ricreare da zero il proprio capitale con una semplice scrittura contabile.
L’ampliamento del Qe sarebbe poi particolarmente efficace, visto dai mercati, se dovesse a un certo punto comportare acquisti regolari di titoli azionari da parte di Fed e Bce. Anche qui abbiamo il precedente di Giappone e Svizzera. La BoJ compra da anni azioni giapponesi, mentre la Banca Nazionale Svizzera stampa franchi per comprare azioni americane, in particolare tecnologiche, sulle quali ha accumulato ampie plusvalenze. In America e in Europa, tuttavia, operazioni di questo genere presterebbero il fianco, nel clima attuale, all’accusa di sussidiare i ricchi. L’accusa potrebbe essere teoricamente aggirata se Fed e Bce acquistassero, come fa la Svizzera, titoli azionari esteri. In questo caso l’obiettivo dichiarato non sarebbe il sostegno alle borse ma l’indebolimento della valuta nazionale. Ci sarebbero molti altri modi per migliorare l’immagine di un sostegno alle borse (creazione di fondi sovrani, fondi misti privati e pubblici, acquisti generalizzati di asset reali di tutti i tipi) ma l’asticella da superare, soprattutto in caso di vittoria democratica in novembre, sarebbe molto alta.
Meno problematica politicamente sarebbe la discesa dei tassi a uno, due, tre punti sotto zero. La difficoltà, qui, sarebbe quella di dosare bene i tempi di una misura di questo tipo. Presentarla come di breve durata rischierebbe di renderla inefficace, mantenerla a lungo produrrebbe effetti collaterali crescenti.
Ancora più semplice, nel nuovo clima, sarebbe agire sul piano fiscale, spendendo altri 10-20 punti di Pil finanziati dalle banche centrali. Sembra molto, visto il carico di debito già esistente, ma il pacchetto americano di cui discutono in queste ore Mnuchin e Pelosi (e che verrà comunque approvato entro febbraio) vale da solo 10 punti di Pil ed è considerato un semplice tappabuchi in attesa delle grandi misure che verranno varate nell’autunno 2021 da un’eventuale amministrazione Biden.
Come si vede, le munizioni a disposizione in caso di seconda ondata sono potenti e numerose. Non eviteranno ondate di fallimenti nei settori più esposti e ripercussioni successive sui conti delle banche, ma sosterranno il nucleo centrale delle economie e dei mercati.
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist del Gruppo e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.