
ARIDE CIFRE
Veniamo oggi a sapere che nel secondo trimestre, quello che ha visto il Liberation Day e la caduta del 20 per cento delle borse nel mese di aprile, l’economia americana è cresciuta alla velocità annualizzata del 3.8 per cento. Certo, il primo trimestre aveva visto una contrazione annualizzata dallo 0.3, ma facendo la media viene fuori che nella prima metà dell’anno, mentre veniva lanciata la teoria della fuga dall’America e mentre ci si affannava a prevedere stagflazione e, in prospettiva recessione, la crescita è stata di un rispettabile 1.75.
Veniamo oggi a sapere che nel secondo trimestre, quello che ha visto il Liberation Day e la caduta del 20 per cento delle borse nel mese di aprile, l’economia americana è cresciuta alla velocità annualizzata del 3.8 per cento. Certo, il primo trimestre aveva visto una contrazione annualizzata dallo 0.3, ma facendo la media viene fuori che nella prima metà dell’anno, mentre veniva lanciata la teoria della fuga dall’America e mentre ci si affannava a prevedere stagflazione e, in prospettiva recessione, la crescita è stata di un rispettabile 1.75.
La seconda metà del 2025, dal canto suo, si profila ancora migliore. Il terzo e il quarto trimestre, secondo il modello della Fed di New York, vedranno rispettivamente il 2.1 e il 2.2 di crescita.
Va bene, si dirà, ma c’è il mercato del lavoro che si sta indebolendo. Molti lo stanno dicendo e ripetendo da mesi. Bisognerebbe però essere un po’ più precisi e spiegare quando un mercato del lavoro è debole e rispetto a che cosa si sta indebolendo.
Cominciamo dal concetto di debolezza. I manuali spiegano che l’indicatore più importante, a riguardo, è il tasso di disoccupazione. Questo, secondo gli ultimi dati, è del 4.3 per cento, in modesto rialzo rispetto al 4.1 di inizio anno. Nei prossimi tre anni, secondo le stime dei membri del Fomc rilasciate la settimana scorsa, la disoccupazione sarà del 4.4 nel 2026, del 4.3 nel 2027 e del 4.2 nel 2028. Ai suoi tempi, quando la disoccupazione era ben più alta, Greenspan affermò che il pieno impiego per l’economia americana equivaleva a un tasso di disoccupazione del 4.3. Oggi, secondo la definizione di Greenspan, siamo dunque in pieno impiego. Ma se siamo in pieno impiego come possiamo dire che il mercato del lavoro è debole?
D’accordo, è l’obiezione, ma i nuovi posti di lavoro sono da tre mesi molto più bassi di quelli che ci siamo abituati a vedere dal 2021. Vero, ma negli anni di Biden c’erano tre milioni di immigrati all’anno, mentre con Trump il flusso si è azzerato. I nati fuori dagli Stati Uniti erano in gennaio 53.3 milioni, in giugno erano già scesi a 51.9. Senza l’apporto dell’immigrazione, 25 è il nuovo 175. Ovvero, come ha detto Powell, i 150-200 mila nuovi posti di lavoro mensili che consideravamo il livello di equilibrio, sono oggi 0-50mila, il nuovo livello di equilibrio. Il mercato del lavoro è debole quando va sotto il suo livello di equilibrio, non quando questo si abbassa per un fattore esogeno. A confermarlo vediamo le richieste di sussidi di disoccupazione, tornate ai minimi dell’anno scorso.
Un’altra narrazione per ora almeno parzialmente smentita dai fatti è quella della fuga degli investitori dall’America, costituita dalla fuga dalla borsa americana, dalla fuga dei Treasuries e dalla fuga dal dollaro. Sul dollaro, più che un’uscita definitiva, c’è stata fino a oggi l’apertura di ampie posizioni di copertura. Si sono in altre parole mantenuti gli asset americani, ma si è venduto a termine il dollaro, facendone scendere il corso. I Treasuries detenuti da stranieri sono rimasti complessivamente stabili, mentre i flussi verso l’azionario americano sono, dall’inizio dell’anno, addirittura positivi.
Tutto bene, dunque? Fino a un certo punto. Il fattore determinante della crescita americana sono in questo momento gli investimenti. La loro crescita è tutta concentrata sull’intelligenza artificiale. Se questa crescita dovesse rallentare assisteremmo a una serie di effetti negativi a cascata. Ci sarebbe meno crescita del Pil, le borse scenderebbero e il loro effetto ricchezza sui consumi diventerebbe negativo, mentre le entrate fiscali subirebbero l’impatto delle minori imposte sui capital gain e della minore crescita. Il disavanzo federale, per ora stabile anche grazie ai dazi, tornerebbe a crescere e i tassi a lungo potrebbero sfuggire di controllo.
Per ora, anche se i mercati hanno iniziato a scontare risultati sempre più distanti nel futuro, la corsa all’intelligenza artificiale non mostra segni di rallentamento. Va però notato che, mentre la Cina cerca di spendere nel settore in modo più oculato ed efficiente e di privilegiare le applicazioni pratiche e già vendibili, l’America si sta buttando a capofitto in programmi di spesa orientati alla crescita della forza bruta della potenza di calcolo, senza peraltro avere dietro l’abbondanza di energia elettrica che ha oggi la Cina.
Più delle politiche dell’amministrazione Trump, meno volatili di come appaiono, e più della linea della Fed, a conti fatti equilibrata, la vulnerabilità della crescita americana è proprio nel suo essere concentrata in un unico grande esperimento, l’intelligenza artificiale, che è in effetti una scommessa tecnologica e strategica.
La modesta correzione che le borse stanno vivendo in questi giorni (e che potrebbe proseguire fino alla fine di settembre per effetto dei ribilanciamenti trimestrali di portafoglio) è da considerare benvenuta. I mirabolanti annunci di colossali programmi di investimento in AI che si sono susseguiti nelle ultime settimane e che hanno destato grandi entusiasmi vanno ora vagliati con un occhio critico. La pressione per realizzarli sul serio c’è tutta, ma la capacità finanziaria e tecnologica per dare un senso ai tre trilioni che girano ormai intorno al settore non è scontata.
La campagna di Miran (allo stesso tempo fedele esecutore di Trump e sua eminenza grigia economica) per forti tagli dei tassi da parte della Fed può portare, dovesse avere successo l’anno prossimo, a un rischioso surriscaldamento dell’economia e a una destabilizzazione dei mercati. Ma può anche essere, alla luce di quanto detto sopra, un’assicurazione contro eventuali battute a vuoto della corsa tecnologica.
Al momento, in ogni caso, non sembrano esserci ragioni per abbandonare la linea di prudenza sui bond lunghi o per rinunciare a sovrappesare borse, oro e Cina nei portafogli.
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Alessandro Fugnoli
Strategist
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.