Negli ultimi giorni c’è stato un crescendo di discorsi sulla fine del ruolo globale del dollaro, sugli investitori che fuggono dall’America impauriti e sull’America che li spinge fuori, contenta che se ne vadano. Il vistoso abbassamento dei toni da parte di Trump su dazi e Fed ha per il momento stabilizzato il dollaro, ma non ha certo fermato il dibattito e non fermerà il graduale rientro a casa dei capitali europei e asiatici nei prossimi mesi e anni.
Negli ultimi giorni c’è stato un crescendo di discorsi sulla fine del ruolo globale del dollaro, sugli investitori che fuggono dall’America impauriti e sull’America che li spinge fuori, contenta che se ne vadano. Il vistoso abbassamento dei toni da parte di Trump su dazi e Fed ha per il momento stabilizzato il dollaro, ma non ha certo fermato il dibattito e non fermerà il graduale rientro a casa dei capitali europei e asiatici nei prossimi mesi e anni.
Questo riequilibrio sarebbe avvenuto comunque, anche senza Trump, perché troppo grande stava diventando la sproporzione tra la presenza sempre più ingombrante di America nei portafogli globali, in particolare nella componente azionaria, e quella del resto del mondo. Certo, l’Europa non brillava particolarmente come motore di crescita e prima dell’adozione delle misure fiscali espansive decise quest’anno appariva più propensa a regolare che a stimolare. La Cina, dal canto suo, mostrava crescita ma anche debolezze strutturali e, soprattutto, era considerata ininvestibile per le sanzioni che avrebbero potuto essere applicate ai capitali stranieri lì investiti in caso di conflitto armato su Taiwan.
Pur con tutte queste avvertenze, che 350 milioni di americani riuscissero a creare equity per un valore doppio rispetto a quella creata restanti 7.8 miliardi di esseri umani cominciava ad apparire sospetto. D’altra parte, l’idea che in quell’equity e solo in quella ci fossero i gioielli della tecnologia del futuro era stata seriamente messa in discussione dall’erompere di una tecnologia cinese spesso di pari livello o comunque prossima a raggiungerlo.
E, certamente, l’America aveva vinto la Seconda guerra mondiale, controllava i mari e gli stretti, aveva l’assoluto dominio delle condutture del sistema finanziario globale, ma aveva anche disavanzi gemelli (bilancio e partite correnti) cronici e vicini a mettere in discussione la solvibilità reale del suo debito (quella nominale non è mai stata in discussione perché l’America può stampare tutti i dollari che vuole). Per non parlare della deindustrializzazione e della conseguente diminuita capacità di sostenere conflitti armati prolungati.
Già si cominciava a dire, in ogni caso, che al regno del dollaro non sarebbe subentrato il regno dell’euro o del renminbi (o del bitcoin, per gli appassionati), ma una sorta di anarchia globale o, comunque, di policentrismo valutario. Non sarebbe stata una novità assoluta, sarebbe anzi stato il ritorno alla normalità storica, con la differenza che nella storia è sempre stata presente qualche forma di legame tra monete e beni reali come oro e argento, mentre il XXI secolo avrebbe visto coabitare forme diverse di fiat money.
Quanto stanno cambiando le cose con Trump? È davvero rotto in modo irreversibile il rapporto tra mondo e dollaro? E come stanno pensando il loro futuro valutario l’Europa e la Cina?
Cominciamo dall’America. Trump ha effettivamente impresso un’accelerazione a molti processi, ma non ha messo in discussione la volontà che il dollaro rimanga valuta globale di riserva. L’idea è quella di avere un dollaro più debole in termini di cambio, ma allo stesso tempo più forte strutturalmente, ovvero con fondamentali più solidi. Prima, insomma, il dollaro era forte di fuori ma debole internamente. Da qui in avanti, riequilibrando i conti pubblici e quelli con l’estero, sarà il contrario.
Nel compiere questo aggiustamento, l’America, come nota Izabella Kaminska, libera il dollaro, lo affida alle forze di mercato e non agli accordi ufficiosi tra banche centrali. Le forze di mercato ne ridurranno il valore? Tanto meglio, vorrà dire che l’aggiustamento sarà più veloce.
Questo affidarsi ai mercati (a condizione che non esagerino) comporta anche una possibile maggiore fluidità tra i tre segmenti che compongono quel dollaro che siamo abituati a vedere come unico. Il primo è quello dei dollari garantiti dal governo degli Stati Uniti e depositati su conti domestici assicurati del Fdic, il secondo è quello dell’eurodollaro e il terzo, quello del futuro, è quello delle stable coins digitali.
L’eurodollaro, ovvero i dollari creati dalle banche fuori dagli Stati Uniti, dopo avere raggiunto i 16 trilioni nel 2016, è in lento declino. Ma al di là del suo peso, una crisi valutaria americana lo metterebbe in difficoltà prima e di più rispetto al dollaro. Non sarebbe impossibile, in circostanze estreme, vedere dollaro e eurodollaro su livelli diversi. Molto, in caso di crisi, dipenderebbe dalla disponibilità dell’America a concedere linee swap di dollari alle banche centrali estere, che li metterebbero poi a disposizione delle loro banche. Sarebbe una disponibilità politicamente motivata, ovviamente. Linee swap per gli amici niente per gli altri. Questa discrezionalità è ovviamente un punto di forza per l’America.
La terza componente è quella delle stable coins digitali agganciate al dollaro e investite in Treasuries (come Tether), che saranno in un certo senso la riedizione tecnologica di quei dollari volutamente non controllati che l’America lasciava circolare in Unione Sovietica. Questi dollari, ai tempi, alimentavano il circuito economico parallelo informale (nero) che fece emergere le inefficienze del sistema ufficiale in rubli e ne accelerò la disgregazione.
In pratica Bessent metterebbe a disposizione di tutti coloro che vivono in paesi dove vige il controllo dei capitali una valuta sicura e anonima che andrebbe a sottoscrivergli i Treasuries e sosterrebbe il corso del dollaro. Il primo paese cui sarebbero destinate le stable coins sarebbe naturalmente la Cina.
Come risponde la Cina alla persistente propensione di molti cinesi di portare i loro soldi all’estero? La risposta è articolata. In primo luogo ci sono i controlli sui movimenti di capitale, resi più stringenti dal 2016. In secondo luogo mantenendo il renminbi molto vicino al dollaro (il cambio di oggi, nonostante tutte le turbolenze, è praticamente lo stesso di inizio d’anno). In terzo luogo costruendo in prospettiva la convertibilità con l’oro, di cui la Cina è un grande produttore e che acquista continuamente anche dall’estero.
La Cina agisce anche, con molto impegno, sul fronte dei sistemi di regolamento internazionale con l’obiettivo di liberare sé stessa e i paesi Brics dal controllo di Swift. Il suo sistema appena inaugurato, Cips, garantisce il regolamento immediato (non i tre giorni di Swift), è molto più economico ed è anche più sicuro. Ed opera prevalentemente in renminbi.
Per ora, dunque, la Cina non intende sostituire il dollaro come valuta di riserva globale e non pensa a sganciarsi dal dollaro. Si era detto che la Cina avrebbe svalutato per compensare i dazi di Trump. Trump, dal canto suo, chiede che la Cina rivaluti. Risultato? Un renminbi immobile. La Cina, il paese che costruisce la stazione della metropolitana prima del quartiere che le starà intorno, intende comunque avere pronte tutte le infrastrutture finanziarie che le consentano di funzionare in caso di decoupling totale con l’Occidente o nel caso voglia proporsi davvero, un giorno, come valuta di riserva su scala più larga.
Dell’euro si è scritto più estesamente nel numero scorso. Riassumendo, l’euro trarrà inizialmente grandi benefici dal rientro dei capitali dall’America e dalla nuova propensione a indebitarsi per finanziare crescita da parte dell’Europa. I tassi potranno scendere senza problemi e collocare il nuovo debito, per grande che sia, sarà molto facile. L’Europa dovrà però stare attenta a non abusare di questa nuova situazione, perché alla lunga potrebbe contrarre la malattia americana.
In sintesi, dopo il dollaro ci sarà ancora il dollaro, ma meno come dominus e più come primus inter pares con euro e renminbi.
Venendo al breve termine, i mercati appaiono in fase di stabilizzazione e la volatilità dovrebbe scendere. Potrebbe però trattarsi di una pausa di poche settimane. Le navi cinesi da alcuni giorni non salpano più per l’America se non in misura ridotta. A fine mese il porto di Los Angeles ridurrà la sua attività. Poi toccherà agli autotrasportatori che portano i prodotti cinesi a Walmart o alle fabbriche. Avremo poi tutti i giorni le foto dei primi scaffali vuoti dei supermercati americani.
Se le trattative con la Cina partiranno davvero o se almeno i dazi saranno tagliati (o, ancora meglio, introdotti gradualmente) i mercati avranno una certa disponibilità a non dare troppo peso alle conseguenze di un arresto temporaneo di attività. Se non sarà così avremo una ripresa di volatilità. Prudenza, quindi, la strada è ancora lunga.
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.