
BENZINA SUL FUOCO
Ci sono le intenzioni e ci sono le parole, ma alla fine contano i fatti. La Fed conferma la sua ipotesi di lavoro di un solo taglio dei tassi nel 2026, che suona dura alle orecchie di un mercato che ne prevede ben di più.
Ci sono le intenzioni e ci sono le parole, ma alla fine contano i fatti. La Fed conferma la sua ipotesi di lavoro di un solo taglio dei tassi nel 2026, che suona dura alle orecchie di un mercato che ne prevede ben di più.
Vedremo. Intanto conclude il 2025 con un taglio che completa il suo passaggio ufficiale da restrittiva a neutrale, in più aggiunge una nuova forma di Quantitative easing. Non si chiama così, anche perché il termine, dopo la vampata inflazionistica degli anni del Covid, è diventato leggermente imbarazzante. La riedizione viene presentata come Acquisti per la Gestione delle Riserve (RMP l’acronimo inglese, annotatevelo), viene avvolta in una nebbia tecnica e introdotta come misura volta a garantire la fluidità del sistema. Ma alla fine sono 40 miliardi al mese di acquisti di titoli brevi, una cifra più che rispettabile.
Gli acquisti della Fed andranno incontro alle esigenze del Tesoro, che ormai ha definitivamente spostato gran parte delle emissioni sulla parte breve e fa a sua volta qualche buy back sui bond lunghi. L’RMP aiuta quindi direttamente la parte breve e indirettamente la parte lunga, l’economia e le borse.
Avere un sistema liquido è un bene che si apprezza quando, come nel 2008, le tubature si intasano e aggravano una crisi finanziaria. Avere il sistema perennemente liquido versando preventivamente anticalcare nelle tubature ha però alla lunga un costo in termini di lento debasement.
Tornando al livello dei tassi, il compito che Trump ha assegnato a Hassett (se sarà lui il successore di Powell) è di portare i Fed Funds al 3 per cento l’anno prossimo e poi, se possibile, proseguire nel ribasso. Probabilmente il nuovo governatore ci riuscirà a metà e si fermerà, per quello che si può immaginare, al 3.25-3.50. Questo per varie ragioni.
La prima è che un’opposizione interna rimarrà nella Fed. I governatori democratici ieri si sono divisi (alcuni hanno votato per il taglio altri contro, con tanto di dissenso formalizzato a verbale). L’anno prossimo, a meno di una severa crisi del mercato del lavoro, voteranno più compattamente contro.
La seconda ragione è che il tentativo dell’amministrazione di condizionare le conferme dei presidenti delle Fed regionali in febbraio probabilmente fallirà e non porterà alla nomina di colombe.
La terza ragione è che la politica dei tagli aggressivi dovrà superare due formidabili ostacoli costituiti dall’inflazione e dal mercato obbligazionario. Addomesticare il mercato è riuscito bene a Bessent quest’anno ed è possibile che riesca anche l’anno prossimo. Addomesticare gli elettori arrabbiati per la perdita di potere d’acquisto sarà la vera sfida.
Gli elettori infatti non ragionano come gli economisti e quando si sentono dire che l’inflazione non è più un problema pensano che i prezzi torneranno ai livelli del 2020 o poco più. Quando vedono che questo non succede tendono a dare la colpa a chi è al potere in quel momento.
È quindi molto significativo che Hassett, presentato come l’anti-Powell, abbia detto nei giorni scorsi che Powell ha ragione nel non impegnare a lungo termine la politica della Fed e nel considerare i dati che affluiscono dall’economia reale. In altre parole, anche Hassett dice che, se l’inflazione sarà troppo vivace, i tagli dei tassi verranno sospesi.
Vediamo così che, mentre le borse festeggiano (intelligenza artificiale permettendo) i tagli del 2026, i bond cominciano a pensare ai rialzi del 2027, già anticipati da alcune previsioni di mercato in America e da Isabel Schnabel, autorevole rappresentante tedesca in Bce, in Europa.
Tempo al tempo, viene da dire. Certo, ex ante il 2026 appare come un anno di surriscaldamento programmato delle economie. C’è però una condizione di cui tenere conto. Più di metà della crescita dell’economia americana viene dagli investimenti nell’intelligenza artificiale. Questi investimenti, che suonavano come musica fino a due mesi fa, sono ora oggetto di riesame da parte del mercato azionario.
Ecco allora che si comprano le società che sono rimaste fuori dalla corsa all’AI, mentre si puniscono con severità quelle che ricorrono troppo al debito per finanziare gli investimenti in potenza di calcolo e data center. Fino a tempi recenti le società tecnologiche, quando volevano risollevare la quotazione del loro titolo, annunciavano qualche licenziamento. Ora, per rassicurare il mercato, hanno cominciato ad annunciare tagli agli investimenti. Se questo fenomeno, un giorno, dovesse allargarsi, avremmo un rallentamento generale della crescita americana.
Quel giorno non è vicino, ma riflettere sulla sua possibilità ci può aiutare a capire le differenze tra 2025 e 2026. Negli ultimi tempi si è spesso pensato al 2026 come a un 2025 sotto steroidi (dove gli steroidi sono i futuri tagli della Fed). In realtà il 2026 sarà un anno più complicato in cui molte cose dovranno incastrarsi bene una con l’altra per funzionare. La scommessa rimane che questo avverrà (e che l’azionario continuerà a salire senza particolari danni alla parte lunga della curva dei rendimenti) ma creerà, a tratti, qualche difficoltà che genererà volatilità.
Nel frattempo vedremo, già nel breve termine, una certa debolezza del dollaro (dovuta ai tassi più bassi e al nuovo Qe) e una ripresa della rotazione dall’AI a tutto il resto. In questo resto ci sono le 493 società non magnifiche dell’SP 500, le borse dell’Asia (in particolare la Cina), dell’Europa e dell’America Latina. E ci sono anche le materie prime non energetiche, in particolare i metalli industriali.
L’eccezionalismo americano non entra in una crisi terminale, come si diceva in aprile, ma non riprende nemmeno il dominio assoluto dei mercati. Si prende una pausa di cui gli investitori, nei prossimi mesi, dovranno cercare di approfittare.
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Alessandro Fugnoli
Strategist
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.