
DOPO I DAZI
Si sarà notato come la tendenza di fondo delle politiche tariffarie americane stia cambiando segno. Da una fase durata sei mesi in cui i dazi, sia pure in modo erratico, venivano introdotti e prevalentemente alzati stiamo passando a una nuova fase che vedrà una prevalenza di correzioni al ribasso.
Si sarà notato come la tendenza di fondo delle politiche tariffarie americane stia cambiando segno. Da una fase durata sei mesi in cui i dazi, sia pure in modo erratico, venivano introdotti e prevalentemente alzati stiamo passando a una nuova fase che vedrà una prevalenza di correzioni al ribasso.
Il caso più evidente è quello della Cina. Dopo un terzo ciclo di rialzi annunciati (dopo quelli di maggio e giugno), per la terza volta si è fatta marcia indietro, eliminando con un tratto di penna il rialzo del 100 per cento minacciato da Trump e portando dal 20 al 10 per cento i dazi legati al fentanyl. Il risultato è che i dazi verso la Cina (se non si contano quelli introdotti da Tump nel 2018, cui la Cina si è già abituata) sono oggi solo di poco più alti di quelli applicati a Paesi storicamente vicini all’America e addirittura più bassi rispetto a quelli del 50 per cento minacciati nei confronti dell’India se non interromperà le importazioni di petrolio russo.
La tendenza al ridimensionamento in cambio di concessioni geopolitiche è ben visibile nei confronti del Brasile e lo sarà presto nei confronti dell’India. Già la si era vista, del resto, con il Giappone, l’Unione Europea e, in queste ore, la Corea del Sud.
Le ragioni di questa de-escalation, già programmata in dettaglio da Bessent e Miran nelle loro linee guida elaborate l’anno scorso per il primo anno dell’amministrazione Trump, sono due.
La prima è che una parte dei rialzi tariffari era già in origine disegnata per essere poi rinegoziata in cambio di concessioni strategiche e geoeconomiche. Fin qui l’amministrazione ha conseguito su questi piani un successo dopo l’altro. L’Unione Europea ha accettato di raddoppiare le sue spese militari, di pagare lei la prosecuzione della guerra in Ucraina e di acquistare più armi e più energia americane. Il Giappone e la Corea renderanno ancora più stretta la loro collaborazione militare con gli Stati Uniti. Il Brasile abbasserà i suoi toni antiamericani, allenterà il suo impegno nei Brics e cercherà di cogestire con Washington il cambiamento di regime in Venezuela. L’India, dal canto suo, ridimensionerà i suoi rapporti con la Russia. Le monarchie arabe, infine, si metteranno ancora di più sotto la protezione americana.
La maggioranza di questi Paesi si è poi già impegnata a investire un totale annunciato vicino ai tre trilioni di dollari in settori produttivi americani che verranno indicati dall’amministrazione, che terrà per sé il 90 per cento degli utili di questi investimenti. La Corea del Sud verserà addirittura all’America un quinto del suo Pil, ovvero 350 miliardi, a fondo praticamente perduto (dettagli e rateizzazione sono ancora da definire) e ne investirà il doppio in investimenti diretti in America.
Nessuno sa ancora se e quanto questi accordi verranno rispettati, ma è intanto evidente, come è stato notato, il cambio di narrazione per cui il paese malato, il debitore per eccellenza, l’America, diventa il paese creditore che si aspetta che gli piovano soldi sulla testa da mezzo mondo.
Il secondo motivo per cui i dazi sono entrati in una fase di riflusso strutturale (salvo rialzi tattici per punire qua e là i comportamenti non allineati) ha natura più strettamente interna. La Corte Suprema, nelle prossime settimane, ne metterà in discussione almeno una parte, obbligando l’amministrazione a sostituirli con altri, probabilmente meno incisivi. D’altra parte, i ricavi dai dazi sono stati finora superiori alle previsioni, tanto da fare pensare a un disavanzo federale che potrebbe essere, per quest’anno e il prossimo, leggermente inferiore a quello del 2024. C’è dunque un margine per ridimensionarli e dare priorità al contenimento dell’inflazione. Finora sono stati gli importatori a farsi carico del peso maggiore dei dazi, ma è probabile che nei prossimi mesi questo peso verrà gradualmente scaricato sui consumatori proprio mentre si avvicina la scadenza elettorale del novembre 2026.
Contenere l’inflazione diventa a questo punto un obiettivo di importanza esistenziale per un’amministrazione che, dovesse perdere il Congresso, vedrebbe fortemente ridotte le sue capacità di azione e potrebbe essere di nuovo oggetto di una procedura di impeachment. Ma il contenimento dell’inflazione, in un anno elettorale, non potrà certo avvenire con un rallentamento della crescita. Per evitarlo, saranno allora necessarie energiche sforbiciate ai tassi. Congelato per via giudiziaria il licenziamento della democratica Cook, il board della Fed non sarà però completamente allineato a Trump nemmeno dopo la nomina del successore di Powell. In particolare, diversamente da quanto sperato, Trump non avrà i voti necessari a condizionare i rinnovi e le conferme dei presidenti delle Fed regionali.
Il Fomc di ieri, che ha messo in discussione tra profonde divisioni il prossimo taglio di dicembre, ha mostrato che questa Fed si piega solo in parte alle pressioni politiche e cerca a sua volta di esercitare un contropotere. Per tagliare davvero i tassi come Trump e i mercati si aspettano, una Fed anche più trumpiana di adesso dovrà dunque avere evidenza di un’inflazione che ritorna a scendere. Da qui l’attenzione dell’amministrazione alla questione della casa (i prezzi dell’immobiliare residenziale stanno scendendo, ma non abbastanza), al petrolio (regime change in Venezuela) e, come abbiamo detto, a un ridimensionamento dei dazi.
Questo quadro sarebbe strutturalmente favorevole alle borse e a un moderato appiattimento della curva dei rendimenti obbligazionari. Nel breve, tuttavia, le borse devono fare i conti con gli elevati livelli di valutazione, con le prospettive sui tassi un po’ meno rosee e con la grande questione dell’Intelligenza artificiale. È tempo di trimestrali e, più che in passato e meno che in futuro, ci si chiede fino a che punto è giusto festeggiare i giganteschi investimenti del settore, soprattutto se questi si portano via una parte troppo alta del pur abbondante flusso di cassa positivo dei grandi gruppi e se non sono almeno in parte compensati da ricavi. Il mercato, nella sua reazione ai risultati, si sta mostrando razionale e selettivo, premiando chi ha i piani più sostenibili e punendo chi butta i soldi nell’AI solo per non perdere il treno e senza badare troppo ai conti.
A parte queste questioni, il dato di fondo più importante, anche per i mercati, è la tregua fra Cina e Stati Uniti. Non è certo una sistemazione di un conflitto destinato a durare ancora a lungo, ma una tregua di 12 mesi (guarda caso fino alle elezioni americane) è un importante fattore di stabilità e ha implicazioni deflazioniste per l’America (che ha troppa inflazione) e reflazioniste per la Cina (che di inflazione ne ha troppo poca). C’è molto dibattito su chi abbia ceduto di più, ma è fortunatamente chiaro che dall’accordo ci si guadagna tutti.
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Alessandro Fugnoli
Strategist
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.