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a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

GLI INGEGNERI E GLI AVVOCATI

La Cina costruisce, l’America litiga

Xi Jinping è un ingegnere chimico. Tutti i segretari di partito, i presidenti e i primi ministri cinesi dagli anni Novanta a oggi sono stati ingegneri. Lo stesso per quasi tutti i membri del Comitato permanente dell’Ufficio politico, per i ministri e per i dirigenti provinciali di più alto livello. Fu Deng Xiaoping, che a 15 anni lasciò gli studi per venire in Francia a fare l’operaio, a dare questa impostazione alla futura classe dirigente del paese.

Xi Jinping è un ingegnere chimico. Tutti i segretari di partito, i presidenti e i primi ministri cinesi dagli anni Novanta a oggi sono stati ingegneri. Lo stesso per quasi tutti i membri del Comitato permanente dell’Ufficio politico, per i ministri e per i dirigenti provinciali di più alto livello. Fu Deng Xiaoping, che a 15 anni lasciò gli studi per venire in Francia a fare l’operaio, a dare questa impostazione alla futura classe dirigente del paese.

L’America ha avuto 45 presidenti. Di questi, 26 sono stati avvocati. Tra loro Jefferson, Madison, Monroe, Lincoln, McKinley, Wilson, Roosevelt, Nixon, Ford, Clinton, Obama e Biden. Solo due sono stati ingegneri, Hoover e Carter, entrambi più bravi di come la storia ce li ha descritti. Metà del Congresso e la gran parte dei governatori sono avvocati. Trump ha studiato economia.

Dan Wang, un cinese-canadese che ha vissuto e lavorato in università e centri di ricerca in America e in Cina, ha appena pubblicato un libro vivace e stimolante, Breakneck, la cui tesi principale è che i due paesi condividono una cultura materialista e un atteggiamento pragmatico e curioso verso la vita. Sono però profondamente diversi nella cultura di governo. Gli ingegneri cinesi costruiscono, prima case e città, poi infrastrutture e poi tecnologia. Sono istintivamente portati anche verso l’ingegneria sociale, come è stato nel caso della politica del figlio unico, di cui cominciano a soffrirsi le conseguenze.

Gli avvocati americani, dal canto loro, sono secondo Wang i campioni della litigation, del ricorso ostruzionistico, della cultura Nimby, della politica per via giudiziaria. Tutelano diritti e libertà, ma l’effetto pratico è che in America da decenni non si costruisce più nulla, con le eccezioni che vedremo tra poco. Nei trentacinque anni in cui la Cina si è dotata di un’immensa rete di linee ferroviarie ad alta velocità, l’America ha litigato all’infinito su una sola linea tra Los Angeles e San Francisco. Ha speculato sui terreni su cui avrebbe dovuto essere costruita, ha passato anni a decidere il tracciato e le fermate perché c’erano i gruppi ecologisti, i sindaci e i comitati di quartiere che presentavano continuamente ricorsi. Alla fine, dopo avere speso una montagna di soldi e costruito un brevissimo tratto in mezzo al nulla, il progetto è stato definitivamente abbandonato.

La Cina ha vinto, titola il nuovissimo libro di Alessandro Aresu, brillante studioso di geopolitica e geotecnologia. È una possibilità, ma la partita, come riconosce lo stesso Aresu, è ancora aperta. Se l’America si è messa a costruire data center è perché non vuole perdere il primato che le resta, quello militare. Se Biden ha energicamente convinto i taiwanesi a costruirgli fabbriche di semiconduttori in America e se Trump sta facendo la stessa cosa con i coreani che dovranno costruirgli cantieri per navi da guerra è perché l’America sente l’acqua alla gola. Se Trump non è andato a dormire per vedersi in diretta la parata militare a Pechino è per la stessa ragione.

Storicamente, quando l’America si è sentita minacciata, si è riunificata e ha reagito con forza. È stato così con il riarmo negli anni Quaranta e con la corsa allo spazio negli anni Sessanta. Questa volta però sarà più difficile. I data center richiedono energia e la Cina si è preparata per tempo, mentre l’America, con la sua rete malandata, dovrà improvvisare.

Anche sulla questione degli ingegneri e degli avvocati bisogna stare attenti a trarre conclusioni affrettate. Breznev e Eltsin, due ingegneri, presiedettero alla stagnazione sovietica e allo sfascio russo. Presidenti avvocati, dal canto loro, hanno gestito, fino al 1960, un secolo di crescita tumultuosa dell’America. Se poi ci si è mesi a litigare, è perché lo sviluppo ha creato problemi ambientali e sociali, mentre la crescita ha perso fascino. Potrà succedere un giorno anche in Cina. Dovesse succedere, Xi Jinping ha anche una seconda laurea, in Legge.

Se l’America ritrova la sua unità su riarmo e data center, su tutto il resto litiga più che mai. Tutte le politiche di Trump (dazi, immigrazione, ordine pubblico) sono state bocciate in questi giorni dalla magistratura. I mercati non sembrano curarsene, un po’ perché Trump va avanti lo stesso, un po’ perché le sentenze, pur condannandolo, gli permettono temporaneamente di farlo. Tutto finirà alla Corte Suprema, che ha maggioranza conservatrice ma non necessariamente trumpiana. Per varie ragioni (equilibri interni, considerazioni politiche) la corte darà probabilmente ragione a Trump sulla sostanza e torto sulla forma.

Se la corte dovesse però far decadere i dazi, forse già in novembre, i mercati dovrebbero decidere se festeggiare o meno (ricordiamo che tra marzo e aprile, quando vennero introdotti, le borse persero quasi il 20 per cento). Sarebbe il colmo che i mercati reagissero con una discesa, valutando la perdita di gettito fiscale (più di 30 miliardi al mese, quasi 4 trilioni su dieci anni, come si usa calcolare in America) un male peggiore rispetto al mezzo punto di inflazione in meno derivante dalla loro eliminazione.

Il fatto è che i mercati, accanto a inflazione e crescita, stanno cominciando a guardare più da vicino la difficoltà degli stati a tenere sotto controllo i loro disavanzi pubblici. Le banche centrali possono anche continuare o riprendere ad abbassare i tassi, ma la parte lunga della curva e il cambio sono comunque esposti, in contesti di fiscal dominance, a rischi crescenti. L’eventuale perdita di controllo sui bond lunghi da parte delle banche centrali potrebbe ripercuotersi anche sulle borse, perché i tassi lunghi in rialzo gelerebbero gli entusiasmi per l’inflationary boom che si profila per l’anno prossimo.

Francia, UK, Giappone e America sono dunque sorvegliati speciali e perfino la Germania, dove Merz parla di raggiungimento del limite accettabile di indebitamento, deve fare attenzione a non alimentare i timori dei bond vigilantes.

Detto questo, non siamo ancora vicini a un punto di rottura. In America i dazi eventualmente cassati dalla Corte Suprema saranno introdotti con un’altra forma. In Francia la situazione rimarrà probabilmente congelata ancora a lungo, ma un accordo tecnico di correzione almeno parziale dei conti pubblici verrà prima o poi trovato. Lo stesso per il Regno Unito, dove Starmer sembra non avere troppa paura dell’impopolarità.

Una crisi del debito dei paesi sviluppati richiede insomma la concomitanza di altri fattori avversi (recessione, esplosione inflazionistica, fallimenti bancari) che per ora non sono presenti. Certo, per prudenza i mercati comprano oro, ma anche l’azionario, in questo contesto, è una buona scelta. Quanto ai bond, per ora è sufficiente restare su scadenze sotto i cinque anni.

 

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