
NULLA È LINEARE
A partire dalla seconda metà del decennio scorso si sono delineate due tendenze storiche di fondo.
La prima è la deriva dei blocchi geopolitici, che è molto di più della deglobalizzazione. Non si tratta infatti del semplice degradarsi della filiera produttiva unica globale e del ripristino di filiere produttive separate e parallele, un fenomeno geoeconomico. Si tratta invece della trasformazione progressiva della separazione economica in ostilità politica tra Occidente e Sud globale e del ritorno di un assetto di guerra fredda che non esclude di diventare calda.
A partire dalla seconda metà del decennio scorso si sono delineate due tendenze storiche di fondo.
La prima è la deriva dei blocchi geopolitici, che è molto di più della deglobalizzazione. Non si tratta infatti del semplice degradarsi della filiera produttiva unica globale e del ripristino di filiere produttive separate e parallele, un fenomeno geoeconomico. Si tratta invece della trasformazione progressiva della separazione economica in ostilità politica tra Occidente e Sud globale e del ritorno di un assetto di guerra fredda che non esclude di diventare calda.
La seconda tendenza di fondo, conseguenza della prima, è la rinazionalizzazione della politica economica, ovvero l’abbandono dell’ideologia della concorrenza tra privati come motore della crescita (con lo stato come semplice arbitro neutrale e garante delle regole) e il ritorno a politiche dirigiste sia a livello macro (stato grande, protezionismo, pianificazione) sia a livello micro (difesa dei campioni nazionali).
Queste due tendenze si sono prevedibilmente tradotte nell’adozione di politiche monetarie e fiscali espansive, orientate alla transizione energetica (finalizzata all’indipendenza strategica dall’esterno) e al riarmo. Le politiche espansive hanno mantenuto la crescita su livelli più alti rispetto a quelli del decennio scorso e hanno causato la ricomparsa di tensioni inflazionistiche, il rigonfiamento del debito pubblico e la migliore performance dei mercati azionari rispetto ai mercati obbligazionari.
Con Trump in America e con Merz in Europa queste tendenze hanno acquistato velocità e profondità. Il protezionismo e il riarmo sono diventati il perno delle politiche economiche, mentre l’intervento pubblico nell’economia si allarga. Si pensi ad esempio al ruolo economico-strategico che Trump intende assegnare al dipartimento della difesa. Questo ruolo appare riprodurre, per ora in piccolo, quello dell’Esercito Popolare di Liberazione cinese, che negli ultimi decenni ha acquisito partecipazioni dirette o importante influenza in società private produttrici non solo di armi ma anche, genericamente, di alta tecnologia. Il DoD ha così appena sottoscritto un aumento di capitale di MP Materials, con lo scopo di finanziare l’avvio della produzione di derivati dalle terre rare (finora importati dalla Cina) e avrà via libera per acquisire tutte le partecipazioni in campo tecnologico che riterrà utili per garantire il mantenimento della forza militare americana.
Le macrotendenze che abbiamo ricordato inducono gli ottimisti a ipotizzare un grande e secolare bull market per le borse e i pessimisti a paventare non solo un grande e secolare bear market per i bond, ma anche a ritenere vicina una crisi fiscale e, se non un default del debito, una fuoriuscita inflazionistica. Questa, simbolizzata da un eventuale allontanamento di Powell dalla Fed, avrebbe ovviamente conseguenze pesanti sull’azionario.
Queste due conclusioni, l’ottimista e la pessimista, assumono come dato la prosecuzione lineare e veloce delle tendenze di fondo alla deriva geopolitica e alle politiche espansive di preparazione alla guerra. In realtà, a nessuno prudono le mani per saltare al collo degli avversari strategici in tempi brevi. Non alla Cina, che avrebbe molto da perdere e che in ogni caso non si ritiene ancora pronta. Non all’America, che preferisce di gran lunga logorare economicamente la Cina. Non alla Russia, che ha il suo da fare in Ucraina.
Non essendo la guerra in nessun modo per domattina (e forse per mai), c’è ancora tempo per regolare la velocità e la forza delle tendenze di fondo in modo da non fare deragliare tutto. Di queste controtendenze, volte al riaggiustamento e al riequilibrio, vediamo segnali significativi.
Pensiamo ad esempio al programma di austerità francese, che include misure da anni Dieci come aumento della pressione fiscale o allungamento dell’orario di lavoro. Pensiamo alla Germania, che si oppone alla forte crescita di spese prevista dal bilancio europeo proposto dalla Commissione. O ai numerosi paesi europei (inclusa l’Italia) che si oppongono per ragioni di bilancio (non politiche) all’acquisto di armi americane da destinare all’Ucraina. O ai dazi di Trump, che sono stati definiti il più grande aumento di imposte mai deciso da un’amministrazione repubblicana e che, alla fine, renderanno la politica fiscale americana più neutrale che espansiva. O al fatto che Trump ama minacciare Powell, ma ama anche lasciarlo dov’è, perché, la Fed, contenendo l’inflazione, mantiene soddisfatta la borsa ed evita una crisi dei bond lunghi.
Un’altra importante controtendenza è visibile nel doppio binario seguito dall’America verso la Cina. Da una parte il decoupling strategico, ma dall’altra il ripensamento tattico sulle sanzioni, rivelatesi controproducenti, e la fascinazione sottile per forme di collaborazione (sulle terre rare, sui chip di Nvidia che possono tornare a essere venduti alla Cina perché permettono di controllarne meglio l’evoluzione tecnologica).
Insomma, se le tendenze di fondo vengono almeno in parte contenute dalle controtendenze, il mondo si fa un po’ meno espansivo per l’azionario e meno minaccioso per l’obbligazionario. Sappiamo che le guerre fanno bene all’azionario (finché non arrivano in casa) e male all’obbligazionario, ma se siamo solo in una fase lunga e lenta di riarmo da deterrenza e se siamo ancora in grado di tenere sotto un certo controllo i bilanci pubblici e la creazione di moneta che serve a finanziarne i disavanzi, allora avremo meno crescita di quella che avremmo lasciando andare i conti pubblici, ma anche più stabilità.
E un minimo di stabilità, ricordiamo, non fa solo bene ai bond, ma, alla fine, anche all’azionario.
ARCHIVIO
Alessandro Fugnoli
Strategist
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.