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a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

OGNUNO PER SÉ

La moltiplicazione delle filiere produttive, costi e opportunità

Ognuno per sé e Dio per tutti è un proverbio ambiguo. Può essere inteso come un affidarsi non passivo alla provvidenza, ma anche come giustificazione di una scelta egoista. Il regista tedesco Werner Herzog ha eliminato l’ambiguità e lo ha declinato nella versione più cupa. Ognuno per sé e Dio contro tutti. Ne ha fatto il sottotitolo di Aguirre, un film affascinante sulla disumanità e l’alienazione dei Conquistadores dell’Eldorado, e poi il titolo della sua autobiografia.

Ognuno per sé e Dio per tutti è un proverbio ambiguo. Può essere inteso come un affidarsi non passivo alla provvidenza, ma anche come giustificazione di una scelta egoista. Il regista tedesco Werner Herzog ha eliminato l’ambiguità e lo ha declinato nella versione più cupa. Ognuno per sé e Dio contro tutti. Ne ha fatto il sottotitolo di Aguirre, un film affascinante sulla disumanità e l’alienazione dei Conquistadores dell’Eldorado, e poi il titolo della sua autobiografia.


Ognuno per sé sembra essere la strada su cui si avviano le scelte strategiche nazionali e regionali dei protagonisti della scena geopolitica. Solo nelle ultime ore abbiamo visto la Cina pubblicare le linee guida del prossimo piano quinquennale. Contare sulle proprie forze sarà la priorità assoluta, in continuità con il piano appena concluso, che aveva come obiettivo la presenza competitiva della Cina in tutti i settori manifatturieri, nessuno escluso. Ora saranno la scienza e la tecnologia ad essere al centro dell’attenzione, in modo da impedire che pressioni straniere possano limitarne lo sviluppo.
Alla stessa conclusione sembra arrivare anche la Commissione europea che, con lo sguardo rivolto ai settori strategici, annuncia un piano per privilegiare il made in Europe nelle commesse pubbliche, che nei prossimi anni saranno decisive per la crescita dell’economia dell’Unione.
Che il processo di separazione non sia limitato ai blocchi, ma si estenda anche al loro interno lo mostra, sempre in queste ore, l’appello del primo ministro canadese Carney a non fare più affidamento sugli Stati Uniti e pensare a un’economia canadese capace di stare in piedi da sola.
Sullo sfondo, nel frattempo, tre grandi fronti di scontro geoeconomico si sono aperti tra Stati Uniti e Cina.
Hanno cominciato gli Stati Uniti imponendo un divieto via via più esteso sull’esportazione di semiconduttori alla Cina. Ha replicato la Cina introducendo un meccanismo minuzioso di autorizzazioni per l’esportazione di terre rare, indispensabili per l’alta tecnologia e per la difesa. Le terre rare sono dappertutto, ma solo la Cina ha la tecnologia per raffinarle e la disponibilità a pagare gli alti costi ambientali che l’estrazione e la raffinazione comportano. In tutta risposta, gli Stati Uniti stanno preparando un divieto generalizzato di esportazioni verso la Cina di prodotti che contengano software americano.
Queste restrizioni, che entreranno in vigore tra poche settimane se non verrà prima raggiunto un accordo, non sono solo formidabili di per sé, ma vengono ulteriormente rafforzate da tre meccanismi di applicazione. Il primo è l’introduzione di sanzioni secondarie, per cui non si colpisce solo l’avversario, ma anche chiunque abbia scambi con lui. Il secondo è l’estensione delle sanzioni alle società partecipate. Il terzo è che è sufficiente che un singolo componente di un prodotto sia americano (o cinese) per fare scattare divieti e sanzioni.
Se queste restrizioni avessero decorrenza fra cinque anni, tutti avrebbero il tempo per organizzarsi. L’America, sia pure tardivamente, sta accordandosi con l’Australia per le terre rare, mentre la Cina sta lavorando alacremente sui semiconduttori. Se però la decorrenza fosse immediata, l’impatto sarebbe tale da provocare una recessione globale.
Che le sanzioni siano un’arma da usare con cautela lo dimostra una lunga esperienza. Le sanzioni europee contro l’energia russa, per quanto applicate gradualmente nell’arco di quattro anni, hanno molto contribuito alla deindustrializzazione della Germania. Le sanzioni europee contro le linee aeree russe hanno portato a un allungamento delle rotte anche per i vettori europei (controsanzionati dalla Russia) e a un vantaggio competitivo per la Cina, che può sorvolare tutto senza restrizioni. Da ultimo va segnalato il recente caso di Nexperia, il produttore olandese di semiconduttori di proprietà cinese che è stato confiscato, in quanto strategico, dal governo dell’Aia. La Cina, prevedibilmente, ha interrotto ogni rapporto con la società, che è ora paralizzata. Il risultato è che l’industria europea dell’auto, che dipende da Nexperia per alcuni importanti componenti, rischia fra poche settimane di dovere rallentare la produzione.
Osservando queste dislocazioni i mercati, fino ad oggi, hanno privilegiato il lato positivo. La dissoluzione della filiera produttiva unica globale e formazione di filiere regionali e nazionali è stata vista inizialmente dagli economisti che si sono formati nelle università del quarantennio passato come un grave passo indietro, foriero di inflazione e di inefficienza. In parte è certamente così, ma la separazione in un contesto di conflitto via via più caldo impartisce al sistema una forte scarica di adrenalina. Non va dimenticato che le borse e le economie continuarono a crescere nella seconda metà degli anni Trenta del secolo scorso, mentre grandi imprese con ricadute tecnologiche come il progetto Manhattan per la bomba atomica e il progetto Apollo per la luna furono rese possibili dalla guerra calda e dalla guerra fredda.
In questi contesti i costi della ricerca se li assume spesso lo stato, mentre le imprese private traggono benefici dalla ricaduta dell’innovazione e dal protezionismo. Sarà il Dipartimento della Guerra a finanziare le terre rare americane e le loro perdite iniziali, mentre Trump annuncia che il governo entrerà come socio nelle società impegnate nella costruzione di computer quantistici.
Non bastasse, il commercio globale, dopo la breve pausa del Covid, ha ripreso a crescere a una velocità, il 2,4 per cento secondo la World Trade Organization nel 2025, superiore alle previsioni.
C’è dunque una logica nella reazione dei mercati, che alla fine soppesano di più i fatti verificati rispetto alle nuvole che non si sono ancora trasformate in pioggia. Ne abbiamo visto un esempio in aprile, quando la minaccia di una recessione originata dai dazi ha fatto inizialmente perdere alle borse un quinto del loro valore, ma ha poi prodotto nuovi massimi storici non appena i fatti hanno smentito le previsioni più cupe.
Il negoziato tra America e Cina è davvero duro e i mercati sono probabilmente un po’ compiacenti nel loro escludere completamente che possano produrre una rottura con le conseguenze cui abbiamo accennato. Un accordo, o un prolungamento della tregua, restano effettivamente lo scenario più verosimile, ma non è tempo per scommesse.
Continuiamo a privilegiare azioni e oro, ma la volatilità dei tempi e il carattere strutturale del grande conflitto che si è avviato ci inducono a rimanere calmi e a non farci trasportare da entusiasmi di qualsiasi genere.

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