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a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

RIPENSAMENTI

Il punto sulla fuga dall’America

Quello di fuga è un concetto ambivalente. Può avere un aspetto tragico, ma può assumerne anche uno epico, quando comporta l’inizio di una nuova vita. In questo senso i grandi esodi, da quello biblico in avanti, possono anche diventare miti fondativi di un processo di rinascita. Si pensi al Grande Trek, la ritirata dei boeri dal Capo nel 1836, divenuto mito romantico del nazionalismo afrikaner e onorato a Pretoria da un grande monumento che il governo post-apartheid ha dichiarato nel 2012 patrimonio nazionale. Oppure alla Lunga Marcia, la difficile ritirata di Mao verso l’interno della Cina di fronte all’avanzata del Kuomintang nel 1936, celebrata in infiniti modi come glorioso ed eroico atto costitutivo della Repubblica popolare.

Quello di fuga è un concetto ambivalente. Può avere un aspetto tragico, ma può assumerne anche uno epico, quando comporta l’inizio di una nuova vita. In questo senso i grandi esodi, da quello biblico in avanti, possono anche diventare miti fondativi di un processo di rinascita. Si pensi al Grande Trek, la ritirata dei boeri dal Capo nel 1836, divenuto mito romantico del nazionalismo afrikaner e onorato a Pretoria da un grande monumento che il governo post-apartheid ha dichiarato nel 2012 patrimonio nazionale. Oppure alla Lunga Marcia, la difficile ritirata di Mao verso l’interno della Cina di fronte all’avanzata del Kuomintang nel 1936, celebrata in infiniti modi come glorioso ed eroico atto costitutivo della Repubblica popolare.

Nei mercati finanziari, a partire dagli anni Novanta, abbiamo visto nei grandi processi di migrazione dei capitali entrambi gli aspetti, quello doloroso e quello della rinascita. Per trent’anni, un po’ alla volta, abbiamo assisto a un grande esodo da tutti gli angoli del globo verso la terra promessa americana. Poi, a partire da quest’anno, abbiamo proclamato l’inizio di un processo storico di fuga dall’America, certamente doloroso ma anche accompagnato da un nuovo senso di fiducia per le prospettive del resto del mondo.

Giusto per rinfrescare la memoria, c’è stata la fuga dal Giappone, dal 1990 al 2012. è stata limitata alla sua borsa, perché lo yen, negli stessi anni, si è molto rafforzato, ma il sistema paese è stato considerato comunque a lungo uno zombie che ha perduto per sempre la sua capacità di crescere. I portafogli globali, per un periodo che è sembrato un’eternità, non hanno fatto che svuotarsi di Giappone.

È seguita la fuga dai paesi emergenti, che dal 2008 al 2024, come mercati azionari, non hanno reso nulla se misurati in dollari. Anche qui i portafogli globali si sono lentamente svuotati.

Poi c’è stata la fuga dall’Europa, dal 2017 al 2022. In termini relativi all’America, in realtà, la performance europea è stata deludente dal 2000 all’anno scorso, ma il malessere è stato particolarmente evidente nel decennio scorso, con le crisi a rotazione prima dei paesi mediterranei e poi della Germania e della Francia. Anche l’Europa è stata dichiarata uno zombie.

Dal 2022 è iniziata la fuga veloce dalla Russia, dichiarata ininvestibile non solo dagli opinionisti, ma anche dai legislatori occidentali.

Nel 2023 c’è stata la fuga dalla Cina, a sua volta dichiarata ininvestibile a tempo indeterminato sia perché travolta dallo scoppio della bolla immobiliare sia perché possibile oggetto di future severe sanzioni occidentali in caso di tensioni su Taiwan.

Ci si è rifugiati tutti nel dollaro e negli Stati Uniti. Il loro peso nei portafogli globali ha raggiunto livelli senza precedenti. Ma in aprile, all’unisono, all’unanimità e con un altissimo grado di convinzione, sono state decretate la fine del dollaro, la fine dei Treasuries come risk free, la fine della bolla dell’intelligenza artificiale americana e la fine del rialzo di Wall Street. Al tempo stesso sono stati indicati come approdi di nuovo sicuri l’Europa, la Cina, il Giappone e gli emergenti. E non si è parlato di un ordinario processo di rotazione, ma di un fenomeno strutturale e di portata storica destinata a estendersi su tutto questo decennio e sul prossimo.

A meno di quattro mesi da quei giorni di aprile la fuga dall’America sembra però essersi interrotta. Wall Street appare di nuovo più solida delle altre borse, l’intelligenza artificiale americana appare più forte che mai, i Treasuries si sono stabilizzati e hanno ripreso terreno e perfino il dollaro è in fase di recupero.

La tesi che proveremo a sostenere è che quanto sta accadendo riflette il processo di riequilibrio globale avviato da Trump, ma lo fa in modo diverso da quello che si era inizialmente immaginato.

In aprile, l’idea prevalente era quella di un’America in fuga dal mondo e avviata a un declino irreversibile. Di converso, si pensava a un resto del mondo che riprendeva finalmente in mano il suo destino, diventava di nuovo soggetto politico e, come tale, rilanciava in grande stile la sua economia.

Del trumpismo si vedevano la confusione, la politica fiscale pericolosamente ondeggiante tra velleità restrittive e spesa senza remore, la fiscal dominance spinta fino al punto di negare qualsiasi autonomia alla Fed e le conseguenze stagflazionistiche del protezionismo.

Si vedeva il giorno per giorno e si trascurava la strategia. Questa risulta oggi chiarissima se si guarda a come sono state condotte le trattative sui dazi, che non hanno mai perso di vista i tre obiettivi di raccogliere soldi, rilanciare il made in Usa e rilanciare la potenza americana.

I soldi dei dazi arriveranno al Tesoro, secondo le ultime stime, al ritmo di 70 miliardi al mese, il 2 per cento del Pil in ragione annua. Che cosa desideravano i mercati a inizio anno? Che il disavanzo federale scendesse, ma solo un poco, per non provocare una recessione. Che cosa finirà per essere? Esattamente questo, se i dazi più che compenseranno i tagli di tasse e le maggiori spese.

Il rilancio del made in Usa, dal canto suo, non avverrà in grande misura per l’aggiustamento del dollaro o per i dazi, anche perché le imprese americane, invece di provare a riprendere quote di mercato interno, alzeranno i loro prezzi di listino sul livello più alto che dovranno subire gli esportatori esteri. Avverrà però attraverso gli investimenti esteri che Trump ha imposto a Europa, Giappone e Corea. Ancora di più, avverrà attraverso l’imposizione degli standard americani (e il divieto di adozione di quelli cinesi) che Trump ha fatto accettare a tutti sulla tecnologia. Silicon Valley ci farà i prezzi che vorrà (lo stesso per le armi, l’energia e i prodotti agricoli).

Terzo punto, il ripristino della potenza. Se ci si fa caso, le trattative commerciali sono state concluse, con grande precisione, secondo una logica dei cerchi concentrici. Per prime sono state chiuse le trattative facili con il cerchio più lontano, quello del paese alleato per antonomasia, il Regno Unito, più uno dei paesi più dipendenti dalle esportazioni verso l’America, il Vietnam. Poi sono stati chiusi i negoziati con gli alleati, in perfetto ordine di dipendenza geopolitica dall’America. Prima il Giappone, poi l’Unione Europea e infine la Corea, che con il nuovo presidente è un po’ più indipendente. Una volta resi questi paesi inoffensivi, ovvero incapaci di coalizzarsi tra loro e con la Cina, ora si passa ai Brics, con il durissimo attacco all’India, cui viene chiesto di schierarsi non solo in geopolitica ma anche in geoeconomia. Allineare l’India è essenziale per indebolire il resto dei Brics, in particolare la Russia, che all’India vende molto del suo petrolio. Una volta allineata l’India si passerà al Brasile e al Sud Africa. Per ultima verrà lasciata la Cina, il centro del cerchio e il vero grande obiettivo, quella che con le terre rare è l’unica che non potrà essere spinta nell’angolo. La Cina non verrà umiliata come gli altri, ma rimarrà più isolata e con le alleanze o gli accordi che stava pazientemente tessendo con molti paesi (Europa inclusa) pesantemente sfilacciati.

In aprile si pensava solo all’America più debole. Ma l’America debole era più quella che negava di esserlo che non quella che sa di essere a rischio. Soprattutto se questa nuova America decide di usare la forza che le resta (che non è affatto poca) con molta più efficienza e decisione.

Tutto, naturalmente, resta aperto. Può darsi che i dazi, alla fine, producano più su larga scala quella stagflazione che per ora resta modesta. Può darsi poi che il boom dell’intelligenza artificiale rallenti, per mancanza di energia elettrica sufficiente o per qualsiasi altro motivo. Può darsi che qualche asta di Treasuries lunghi vada male, anche se Bessent, presentando ieri il suo programma di emissioni, ha saggiamente evitato di seguire l’indicazione di Trump di emettere solo titoli brevi e mantenuto una certa rassicurante normalità.

Tutto resta aperto, ma l’America, come destinazione di capitali, non va più vista come un paese da qui fuggire oggi stesso a qualsiasi costo. Il processo di diversificazione è strutturale e si è avviato (su questo la logica di aprile ha ancora ragione) ma potrà essere graduale e ordinato.

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