
UN’OCCHIATA AL 2026
L’elemento caratterizzante del 2025 è stato l’irrompere sulla scena della rivoluzione trumpiana. Ne sono state influenzate sia la geopolitica sia l’economia globale. La geopolitica ha registrato la fine dell’ambizione americana a un controllo pervasivo (ma sempre meno effettivo) del mondo e la sua sostituzione con una legittimazione di Cina e Russia come potenze con cui dialogare, accompagnata però dal tentativo aggressivo di massimizzare l’efficacia della forza rimasta all’America. Sul piano dell’economia, abbiamo visto la partenza del progetto di riequilibrio globale con al centro la definanziarizzazione e la reindustrializzazione dell’America.
L’elemento caratterizzante del 2025 è stato l’irrompere sulla scena della rivoluzione trumpiana. Ne sono state influenzate sia la geopolitica sia l’economia globale. La geopolitica ha registrato la fine dell’ambizione americana a un controllo pervasivo (ma sempre meno effettivo) del mondo e la sua sostituzione con una legittimazione di Cina e Russia come potenze con cui dialogare, accompagnata però dal tentativo aggressivo di massimizzare l’efficacia della forza rimasta all’America. Sul piano dell’economia, abbiamo visto la partenza del progetto di riequilibrio globale con al centro la definanziarizzazione e la reindustrializzazione dell’America.
I mercati finanziari hanno reagito a questa rivoluzione prima esagerandone le potenziali ricadute immediate e poi minimizzandole. E così abbiamo visto diffondersi, dopo il Liberation Day di aprile, la parola d’ordine della fuga dall’America (non c’è futuro, si diceva, né per il dollaro, né per i Treasuries, né per Wall Street, che risentirà inevitabilmente, comunque vada l’economia americana, della fuga dei capitali esteri).
Nella seconda parte del 2025, al contrario, i mercati si sono riconciliati con l’America. Hanno contribuito alla riconciliazione la constatazione che l’inflazione non sta schizzando verso l’alto, la tenuta e la riaccelerazione dell’economia, gli eccellenti profitti delle imprese, i progressi dell’AI, la fine della fase ascendente delle tensioni sui dazi e l’accordo quadro con la Cina.
In questa fine d’anno, il dibattito è sulla supposta fine della fase propulsiva della rivoluzione trumpiana. Trump, si fa notare, è sulla difensiva sui dazi e dovrà riprofilarli radicalmente dopo che la Corte Suprema li avrà indeboliti. E’ sulla difensiva sull’inflazione, che non è molto alta ma alla quale gli elettori sono diventati molto sensibili. Non ha più spazio d’azione in Congresso, dove la sua fragile e litigiosa maggioranza, dopo il Big Beautiful Bill, non riuscirà più a produrre niente di significativo e rimarrà in attesa di essere sostituita da una maggioranza democratica dopo le elezioni del prossimo novembre.
Trump, insomma, sarebbe già un’anatra zoppa che dal 2027 rischia l’impeachment e che nel 2026 si limiterà alla deregulation e ad azioni simboliche mirate a calmierare il prezzo delle case e l’inflazione in alcuni beni di prima necessità. Visto dai mercati, questo significherebbe niente più sorprese per il 2026 e una navigazione inerziale verso l’alto delle borse (con il bonus aggiuntivo di una modesta riduzione dei tassi).
Le cose non sono però così semplici. La rivoluzione trumpiana non è finita. A rileggere il programma di Miran del novembre 2024, è stata realizzata abbastanza alla lettera la prima parte (dazi, svalutazione del dollaro, tagli fiscali finanziati dalle tariffe, arresto del deterioramento dei deficit gemelli, fiscale e delle partite correnti) ma resta in attesa di avviare la seconda parte. Per realizzarla, l’amministrazione non avrà tanto bisogno del Congresso, quanto della Fed.
Per capire il senso di questa seconda parte bisogna tornare all’obiettivo strategico del riequilibrio globale. L’obiettivo, come lo riassume Michael McNair, è di indurre il resto del mondo a riciclare il suo surplus commerciale non comprando Treasuries e Nasdaq, ma comprando merci, armi e tecnologie americane e, ancora di più, facendo investimenti diretti (cioè produttivi, non finanziari) in America. Dateci meno soldi per le nostre attività finanziarie, datecene di più costruendo fabbriche sul suolo americano, spostando qui attività produttive e ricerca, aiutandoci a ricostruire cantieri navali e a impiantare data center e fabbriche di semiconduttori.
Per farsi dare meno soldi per i suoi Treasuries, il programma prevede di tassare quelli posseduti dall’estero, accompagnando questa misura con drastici tagli degli interessi pagati dall’America. A misure di questo tipo, quest’anno, si è però opposta la Fed di Powell, che ha anche rifiutato di mettere condizioni alle linee swap che concede ai paesi stranieri quando hanno bisogno di dollari.
È chiaro che rendere meno appetibili i Treasuries per gli stranieri farebbe scendere il loro prezzo e renderebbe più oneroso per il Tesoro americano finanziare il suo debito. Dovrebbe a quel punto entrare in scena la Fed, comprando lei i titoli venduti dall’estero o imponendo comunque forme di controllo di curva. Ecco allora perché la conquista della Fed diventa centrale per la seconda parte del programma trumpiano.
Con Hassett (se toccherà a lui) al posto di Powell, la Fed non sarebbe però ancora indotta abbastanza a una stretta collaborazione col Tesoro. Trump avrà infatti, a partire da maggio, la maggioranza dei governatori centrali ma non quella dei presidenti delle Fed regionali. È qui che infurierà la battaglia.
Se la conquista completa della Fed riuscirà, avremo una riedizione temporanea dei tremori di aprile, ma questa volta solo sul dollaro. Una parte del mercato teme che una Fed ultraespansiva farà male anche alla parte lunga della curva dei rendimenti. Miran e Hassett ne sono perfettamente consapevoli ma agiranno energicamente, se avranno la maggioranza, per produrre l’esito opposto. Lo faranno anche attraverso la prosecuzione del processo di deregulation delle banche, che darà a queste più spazio per comprare Treasuries. Bessent farà la sua parte sostenendo la diffusione nel mondo delle stablecoins, che per legge devono essere investite in titoli del Tesoro. L’economia, in questo contesto, riceverà una forte spinta. Le borse arriveranno al voto di novembre su nuovi massimi.
Se la conquista completa della Fed non riuscirà, l’effetto sarà moderatamente positivo sul dollaro e, inizialmente, per la parte lunga della curva. Anche una Fed non completamente riconquistata sarà in ogni caso più espansiva di oggi. Inoltre l’amministrazione continuerà a premere sui partner commerciali esteri affinché realizzino gli investimenti produttivi promessi. Tutto sarà però più complicato.
I potenziali ostacoli sulla strada di un 2026 in rosa sono tre. Sul piano geopolitico, l’eventuale fallimento delle trattative in corso potrebbe portare a un inasprimento molto serio dei conflitti. L’inflazione potrebbe dal canto suo mettere in difficoltà la parte lunga della curva, anche se i rischi saranno fortemente ridotti dal prezzo delle case che continuerà a scendere. Infine la borsa potrebbe assistere ad altri episodi di crisi di fiducia sull’AI, anche se probabilmente, come stiamo vedendo in questi giorni, questi episodi vedranno più rotazioni interne al settore dell’AI piuttosto che uscite definitive.
Nel complesso, il 2026, per quello che possiamo capire oggi, sarà più movimentato di quanto non sostengano i sostenitori della teoria di Trump anatra zoppa. Sarà anche un anno di forte crescita moderatamente inflazionistica. L’inflazione tornerà a essere un problema più avanti, ma non necessariamente l’anno prossimo.
ARCHIVIO
Alessandro Fugnoli
Strategist
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.