Il Rosso e il Nero (logo)
a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

ASIA

Trappola di valore o investimento del futuro?

C’era una volta un mondo più semplice in cui da una parte c’erano i paesi capitalisti e dall’altra i paesi socialisti. Fatte salve le preferenze politiche di ciascuno, era comunque chiaro che chi aveva soldi da investire sui mercati finanziari sceglieva i paesi capitalisti, sia per la maggiore redditività sia perché i paesi socialisti avevano mercati finanziari chiusi e asfittici, limitati ai titoli del debito pubblico e ai depositi bancari oppure illegali, come il mercato nero dei cambi.

C’era una volta un mondo più semplice in cui da una parte c’erano i paesi capitalisti e dall’altra i paesi socialisti. Fatte salve le preferenze politiche di ciascuno, era comunque chiaro che chi aveva soldi da investire sui mercati finanziari sceglieva i paesi capitalisti, sia per la maggiore redditività sia perché i paesi socialisti avevano mercati finanziari chiusi e asfittici, limitati ai titoli del debito pubblico e ai depositi bancari oppure illegali, come il mercato nero dei cambi.

Oggi è un rompicapo distinguere in modo netto un modo di produzione dall’altro. Tutto è infatti andato progressivamente confondendosi.

L’Occidente ha abbandonato il paradigma liberale ottocentesco ogni volta che ha deciso di riarmarsi e prepararsi alla guerra. La formazione di grandi monopoli ha preparato la Prima guerra mondiale. Il New Deal e l’assunzione da parte dello stato di un ruolo di direzione dell’economia e di proprietà diretta di alcuni mezzi di produzione strategici hanno preparato la Seconda guerra mondiale. Il ritorno in grande stile, ai giorni nostri, della politica industriale e l’abbandono delle politiche di contenimento del ruolo dello stato accompagnano, dal canto loro, il riarmo globale.

Anche nelle fasi storiche di distensione, come quella del mondo unipolare seguito alla fine della prima guerra fredda, il capitalismo occidentale, pure adottando un’ideologia neoliberista, è progressivamente evoluto in senso oligarchico e oligopolistico. Questo è stato evidente non solo nell’alta tecnologia, ma anche nell’industria tradizionale, dove il numero di aziende in competizione tra loro in ogni settore è andato progressivamente riducendosi attraverso fusioni e acquisizioni, accrescendo il pricing power delle imprese fino ad arrivare alla greedflation, l’inflazione da avidità, negli anni del Covid.

Dall’altra parte del mondo, il capitalismo giapponese e quello coreano si sono formati fin dalla metà dell’Ottocento sul modello degli zaibatsu verticali, creati già in epoca Edo intorno a famiglie provenienti dalla classe dei samurai. Con l’occupazione americana, dopo il 1945 gli zaibatsu sono stati sciolti, ma sono loro immediatamente subentrati gli zeiretsu orizzontali, sistemi di partecipazioni incrociate che includono banche e imprese e che fanno capo alle stesse famiglie. Molto simile il sistema coreano dei chaebol.

In Russia la caduta del socialismo ha lasciato il posto nel decennio eltsiniano a un sistema cleptocratico poi evoluto in senso oligarchico. Nel tempo l’oligarchia ha perso una parte della sua forza a favore dello stato, ma l’integrazione rimane stretta. Nell’autorappresentazione, in ogni caso, nelle parole di Putin la Russia si considera un paese capitalista.

Sulla Cina ci sono stati vari equivoci. L’Occidente ha scambiato il denghismo (il socialismo con caratteri cinesi) come l’abbraccio tout court del capitalismo liberista, quando invece l’idea di Deng (e di Xi) è sempre stata quella di replicare la NEP sovietica del 1922-28 (l’apertura temporanea al mercato e agli investimenti esteri accompagnata dal vincolo del profitto per le imprese pubbliche), non per pochi anni ma su tempi cinesi, ovvero per un secolo o due.

La profittabilità delle imprese pubbliche cinesi è stato un obiettivo in gran parte mancato. Si è preferito utilizzarle come cinghia di trasmissione della politica industriale (in particolare nel caso delle banche) e le si è scaricate in borsa a zavorrare il mercato (un modello seguito anche in Vietnam) e a socializzare le perdite coinvolgendovi gli investitori.

Un altro equivoco ancora diffuso in Occidente è che la Cina sia un capitalismo di stato. In realtà, a fianco del sistema pubblico, che esiste anche da noi, si è creato un sistema privato ultracapitalista e ultraconcorrenziale. Il potere politico è meno sensibile che in Occidente alle pressioni dei magnati e i gruppi d’interesse hanno influenza a livello locale, ma molto meno a livello nazionale.

La grande differenza tra Occidente e Asia non passa dunque per il grado di controllo pubblico dell’economia, che in alcuni settori è maggiore da noi che da loro (si pensi all’auto, con Renault e Volkswagen pubbliche e i produttori cinesi tutti privati).

La differenza è nell’obiettivo strategico delle imprese private, che da noi è la massimizzazione del profitto per gli azionisti, mentre in Asia (con l’eccezione dell’India) è la massimizzazione della quota di mercato. Il risultato è che l’impresa occidentale non scarica sui prezzi i miglioramenti di produttività e li distribuisce agli azionisti come extraprofitti. In Asia i miglioramenti di produttività vengono invece immediatamente scaricati sui prezzi, con vantaggio dei consumatori (noi occidentali importatori inclusi, naturalmente). Inoltre noi usiamo la finanziarizzazione per alzare il prezzo di borsa (ad esempio con l’acquisto di azioni proprie), in Asia molto meno.

La presenza di molte aziende pubbliche non o poco profittevoli da una parte, i profitti delle imprese private sacrificati sull’altare della quota di mercato dall’altra spiegano dunque l’apparente mistero. Ci riferiamo al fatto che mentre l’economia asiatica cresce strutturalmente più delle nostre e conquista ogni anno quote di mercato, le nostre borse vanno molto meglio delle loro. Il contrario vale per i bond, almeno per quelli cinesi. L’Asia produce ed esporta deflazione e i suoi bond salgono di prezzo.

Dal punto di vista azionario, dunque, l’Asia è una grande trappola di valore. È eternamente sottovalutata rispetto a noi, ma continua a esserlo perché i suoi profitti sono bassi e crescono poco per costruzione.

Qualcosa però sta cambiando e in un mondo, il nostro, in cui le valutazioni hanno raggiunto livelli elevati, è per un gestore un peccato di omissione non prestare attenzione a quello che sta accadendo in Asia.

Ci riferiamo in particolare a Corea e Cina, anche perché il Giappone è in una fase complessa e anche confusa di ricerca e ridefinizione delle sue priorità.

In Corea l’ampio rialzo azionario dell’ultimo mese segue l’elezione a presidente di Lee Jae-myng. La borsa anticipa le riforme che Lee ha presentato in campagna elettorale, particolarmente favorevoli per gli azionisti e per le imprese. Non stiamo dando necessariamente un’indicazione  di acquisto (molto è già nei prezzi) ma segnalando un cambiamento di mentalità in un paese in cui gli azionisti sono sempre stati trascurati.

Ancora più significativi i cambiamenti in Cina. L’inflazione al consumo anno su anno è negativa (- 0.1) e il governo teme che, di fronte ai dazi di Trump, le imprese cinesi si preparino ad abbassare ulteriormente i prezzi. Da qui, come riporta China Banking News, i richiami crescenti, che presto potrebbero diventare linea ufficiale, affinché le imprese evitino la spirale della concorrenza (involuted competition, che sta anche per concorrenza assurda) facendosi la guerra tra loro a tutto vantaggio del consumatore americano e a danno dei profitti. I profitti ci vogliono, va dicendo il governo cinese, ed è meglio che le imprese usino gli aumenti di produttività per finanziare la ricerca e migliorare i loro prodotti piuttosto che per tagliare i prezzi.

Detta così, gli utili per gli azionisti non sono ancora la priorità, ma è già un passo in quella direzione. A questo va aggiunta l’idea, proposta da economisti autorevoli e vicini al governo, di promuovere un generale rialzo strutturale della borsa cinese per creare tra gli investitori un effetto ricchezza che rovesci il clima depresso diffusosi in seguito allo sgonfiarsi della bolla immobiliare e aumenti la propensione ai consumi interni. L’export cinese sta andando molto bene, ma prima o poi i mercati esteri diverranno meno ospitali e sarà indispensabile sostenere in tutti i modi il mercato interno.

In conclusione, i nostri mercati azionari appaiono solidi e la correzione d’autunno, se ci sarà, si profila contenuta. Il mondo però è grande e merita attenzione.

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