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a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

ARTE DIGITALE

L’ultima frontiera dell’inflazione (e del feticismo)

È l’arte digitale l’asset che sta crescendo di valore più velocemente. Non sono le materie prime, i diritti di inquinamento, i grandi titoli della tecnologia o le azioni meme scambiate su Robinhood a scaldare questa estate bensì i gattini, i mostricciattoli e i semplici sassi disegnati (generalmente male) da ragazzini e criptati tramite blockchain. Un gattino disegnato in pochi minuti e poi trasformato in un Non Fungible Token (NFT) può essere piazzato subito per 3000 dollari ed essere poi rivenduto dal fortunato compratore per 10-15mila dollari la settimana successiva.

È l’arte digitale l’asset che sta crescendo di valore più velocemente. Non sono le materie prime, i diritti di inquinamento, i grandi titoli della tecnologia o le azioni meme scambiate su Robinhood a scaldare questa estate bensì i gattini, i mostricciattoli e i semplici sassi disegnati (generalmente male) da ragazzini e criptati tramite blockchain. Un gattino disegnato in pochi minuti e poi trasformato in un Non Fungible Token (NFT) può essere piazzato subito per 3000 dollari ed essere poi rivenduto dal fortunato compratore per 10-15mila dollari la settimana successiva.

Non c’è da stupirsi se un artista digitale un po’ più professionale come Beeple, il nome d’arte di Michael Winkelmann, abbia venduto per 69 milioni di dollari Everydays, il collage elettronico che potete ammirare qui sopra. Se vi piace potete scaricarlo gratuitamente dalla rete con la stessa definizione dell’originale e godere dello stesso identico piacere artistico che provereste con la copia criptata. Il piacere aggiuntivo di quest’ultima è la firma dell’autore, che non è nemmeno disegnata sulla tela col pennello come si faceva una volta ma è una stringa alfanumerica depositata in qualche server farm.

Quando Walter Benjamin nel 1936 scriveva L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e descriveva la perdita di quell’aura mistica di cui lo spettatore circonfonde un quadro quando questo può essere fotografato in infinite copie, la feticizzazione dell’originale era ancora a metà strada. Una fotografia di un dipinto o di una statua, dopotutto, non dà l’idea delle sfumature e può alterare la luminosità. La riproduzione elettronica di un’opera elettronica è invece veramente identica all’originale e l’aura di cui scriveva Benjamin viene trasferita dall’opera alla firma digitale. È questa che provoca l’emozione per la quale qualcuno tira fuori 69 milioni.

È possibile, naturalmente, che non si tratti di feticismo ma, più semplicemente, dell’idea che, in tempi di asset inflation, qualunque cosa si compri oggi a 100 potrà essere rivenduta domani a 200. Finora ha funzionato, ma fino a quando le banche centrali potranno tollerare non solo che gli asset continuino a gonfiarsi, ma che i beni di consumo crescano di prezzo a una velocità doppia rispetto a quel 2 per cento che da due decenni è indicato ufficialmente come obiettivo? E probabilmente più che doppia, dal momento che il deflatore del Pil americano rivisto oggi, la misura più completa e meno manipolabile dell’inflazione dal momento che ne calcola l’impatto su tutti i beni e servizi, registra nel secondo semestre una velocità annualizzata dal 6.1 per cento.

L’inflazione per il momento è accettata bene dai mercati finanziari, ai quali bastano la salita costante delle borse e l’ottima tenuta dei bond, ma è tollerata meno dai consumatori, che fra 14 mesi si trasformeranno in elettori. Che l’inflazione sui beni essenziali cominci a essere un nervo scoperto per l’amministrazione Biden lo si vede dalla disponibilità dichiarata a scendere a compromessi con l’Iran (per fare scendere il petrolio) e dall’aumento del 20 per cento del valore dei sussidi alimentari federali concessi a 42 milioni di americani.

La Fed non è in una posizione comoda. Da una parte ha l’inflazione, come abbiamo visto, ma dall’altra ha un’economia globale che, per quanto appaia gonfia di steroidi, è in realtà fragile. Molti paesi emergenti che non hanno la fortuna di avere materie prime barcollerebbero seriamente se la Fed dovesse iniziare a stringere. Ma anche nei paesi industrializzati la prospettiva di un ritorno alla normalità si allontana se è vero che i vaccini offrono una copertura limitata e che controlli e restrizioni si prolungheranno.

Sono ormai mesi che i mercati aspettano con trepidazione la riunione di Jackson Hole di domani, ma l’incertezza sulla pandemia e le pressioni politiche continueranno probabilmente a spingere la Fed a mantenere la linea ultramorbida già decisa da più di un anno, con un 2022 dedicato al tapering e un 2023 dedicato a qualche modesto rialzo dei tassi di policy, destinati comunque a rimanere ampiamente al di sotto dell’inflazione per tutti i prossimi anni.

Aspettiamo dunque un Powell vago e ambiguo annunciare quello che sappiamo già e cioè che a settembre il Fomc discuterà del tapering, che a novembre ne deciderà i tempi e i modi e che con l’anno nuovo si inizierà la riduzione effettiva e graduale degli acquisti di titoli.

In realtà, nel mondo reale, il tapering è già operativo attraverso due canali. Il primo è quello dei reverse repo, con i quali la Fed vende titoli, sia pure temporaneamente (il contrario del Qe, che è un acquisto). Il secondo passa per il Tesoro, che si appresta a emettere di più per l’esaurirsi della liquidità in eccesso raccolta l’anno scorso. Ancora per qualche settimana questo secondo canale sarà bloccato dalla necessità di aumentare il tetto all’indebitamento che sta per essere raggiunto, ma ci sono pochi dubbi che, superato l’ostacolo e vinta l’opposizione repubblicana, le emissioni si faranno più massicce.

Al di là dei dettagli (non cambia molto se il tapering inizia in dicembre o in gennaio) lo scenario per i mercati rimane invariato. L’indicazione di policy rimane quella di crescere a tutti i costi tenendo i tassi ufficiali immobili qualunque sia il livello dell’inflazione.

È uno scenario che dovrebbe tornare a favorire i titoli ciclici. La parte lunga della curva potrebbe infatti tornare a salire di rendimento, frenando i titoli di crescita. Il permanere di buoni livelli di crescita dell’economia dovrebbe poi rassicurare un mercato che è diventato troppo preoccupato per i rischi di un rallentamento che arriverà la seconda metà dell’anno prossimo, non nell’immediato.

La liquidità a disposizione del mercato si farà gradualmente meno abbondante ma questo, più che sui livelli di prezzo, inciderà sulla volatilità, ora anormalmente bassa. Per chi investe a medio termine la volatilità non è un problema se il trend di fondo rimane, come crediamo, positivo.

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