rosso e nero
a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

CAMBIO DELLA GUARDIA

Nuovi problemi prendono il posto dei vecchi

I mercati si devono confrontare in questi giorni con due problemi nuovi, la tensione in Medio Oriente e il rialzo dei tassi a lungo termine, Non sono ovviamente problemi di poco conto, ma vanno considerati alla luce del miglioramento (o, come minimo, del mancato deterioramento) che continua sull’altro fronte, quello dei problemi che ci hanno preoccupato nell’ultimo anno, ovvero crescita, Cina e inflazione.

I mercati si devono confrontare in questi giorni con due problemi nuovi, la tensione in Medio Oriente e il rialzo dei tassi a lungo termine, Non sono ovviamente problemi di poco conto, ma vanno considerati alla luce del miglioramento (o, come minimo, del mancato deterioramento) che continua sull’altro fronte, quello dei problemi che ci hanno preoccupato nell’ultimo anno, ovvero crescita, Cina e inflazione.

In altre parole ci sono problemi nuovi che sostituiscono problemi vecchi.

La tensione geopolitica è ovviamente la preoccupazione maggiore, perché è difficile da modellizzare. Sui tassi si possono fare calcoli di impatto, su un conflitto no, perché è impossibile prevedere la sua evoluzione.

La guerra in Ucraina è stata finora un conflitto circoscritto e non lo è stata per caso, ma per la volontà dei belligeranti di non superare un certo grado di coinvolgimento e di durezza. Qualsiasi guerra è orrore, ma nel conflitto ucraino non abbiamo visto bombardamenti a tappeto delle città, allargamento del campo di guerra ai paesi vicini o coinvolgimento sistematico dei civili.

Nel Levante è più difficile escludere del tutto la possibilità di un allargamento a macchia d’olio del conflitto. L’aspetto più incoraggiante è che nessuno, in questo momento, pare avere molta voglia di impegnarsi in quella direzione.

Israele dichiara di volere effettuale un’operazione di polizia in un’area circoscritta e vede come una minaccia molto seria un eventuale intervento di Hezbollah nel nord. Hamas, da sola, non può fare molto. L’Egitto, che dipende in misura significativa dagli aiuti americani e sauditi, non ha grandi margini di manovra ed è comunque in rapporti di relativamente buon vicinato con Israele. L’Arabia Saudita non ha certo brillato nel conflitto yemenita e la sua forza militare effettiva (ammesso e non concesso che voglia usarla) è un grande punto di domanda. È inoltre impegnata in programmi di sviluppo interno molto costosi, che considera indispensabili per mantenere il consenso. Un petrolio a 100 dollari le andrebbe benissimo, ma andare oltre comporterebbe il rischio di una recessione globale e di un successivo crollo del greggio.

Quanto agli Stati Uniti, l’apertura di un secondo fronte dopo quello ucraino renderebbe ancora più impegnativo il presidio del Pacifico, il cui controllo è il vero obiettivo strategico americano. Resta l’incognita iraniana. In questo momento Teheran esporta più petrolio rispetto agli anni scorsi. In un contesto di erosione del consenso interno mantenere sotto controllo l’economia ed evitare un inasprimento delle sanzioni diventa ancora più importante del solito. Si può inoltre supporre che la dirigenza iraniana non voglia rischiare di mettere in gioco Hezbollah (che ha comunque un suo grado di autonomia) dopo l’indebolimento (o annientamento) a cui Hamas andrà probabilmente incontro.

L’esperienza della prima guerra mondiale, iniziata senza che nessuno davvero la volesse, insegna però che bisogna essere cauti e che non si deve mai sopravvalutare la freddezza e la razionalità dei protagonisti. Un conflitto regionale ampio, con severe implicazioni per l’economia globale, va però ancora tenuto come scenario di coda. In questi casi è doveroso ridurre al massimo l’esposizione a leva e comprare protezione. Chi non se la sente di comprare massicciamente put può comunque spostarsi su azioni difensive e acquistare oro.

Quanto all’altra grande preoccupazione del mercato, i tassi a lungo, possiamo vedere il loro permanere su livelli elevati come un’alternativa a eventuali altri rialzi dei tassi di policy. Una curva dei tassi meno invertita è un inizio di normalizzazione che, come tale, va visto come fisiologico. È un prezzo che si paga quasi volentieri se dall’altra parte c’è un’economia globale che si difende bene.

Niente è mai perfetto (e se lo è non lo resta a lungo), ma chi avrebbe protestato troppo, 6 o 12 mesi fa, se avesse potuto prevedere quello che si sta verificando sotto i nostri occhi, ovvero un’economia americana che sta crescendo a una velocità annualizzata superiore al 3 per cento, un’ottima tenuta del mercato del lavoro e un’inflazione salariale moderata? Chi, tre mesi fa, avrebbe sperato in un’economia cinese che cresce (con qualche aiuto) più del 4 per cento e in un’Europa che riesce ancora a bilanciare le sue aree di debolezza con la tenuta complessiva della sua economia?

Sono questi segni di forza che ci inducono a rimanere investiti e ad accettare il prezzo dei tassi a lungo più alti. I tassi alti, d’altra parte, cominciano a costituire un’opportunità per gli investitori, in particolare per quelli in dollari.

Un’ultima considerazione sul debito pubblico italiano, che nei prossimi giorni andrà incontro al giudizio delle agenzie di rating internazionali.

Non c’è dubbio che con l’attenuazione dell’inflazione (che nei due anni passati ha eroso lo stock reale del nostro debito pubblico) e con una crescita in rallentamento (che limita le entrate fiscali) la situazione sia oggi più complessa. Lo è però per tutti, non in particolare per l’Italia.

L’Italia ha uno stock di debito che, paragonato al Pil, è di 20-25 punti più alto rispetto a quello degli Stati Uniti e della maggior parte dei paesi europei. Questa differenza che ci portiamo dietro non è però aumentata negli ultimi dieci anni e continuerà, nell’orizzonte prevedibile, a rimanere costante. Quanto alla politica fiscale, il disavanzo pubblico italiano sarà nel 2024 pari a quello francese e inferiore a quello degli Stati Uniti.

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