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a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

DEBASEMENT

Analogie e differenze rispetto agli anni Settanta

I mercati amano pensarsi come macchine che scontano il futuro, o quantomeno l’idea che nel presente si ha del futuro. Ci sono però casi in cui i mercati non sono solamente stati incapaci di guardare al futuro, ma non sono nemmeno riusciti a capire il presente.

I mercati amano pensarsi come macchine che scontano il futuro, o quantomeno l’idea che nel presente si ha del futuro. Ci sono però casi in cui i mercati non sono solamente stati incapaci di guardare al futuro, ma non sono nemmeno riusciti a capire il presente.

A cavallo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta l’inflazione iniziò a ripresentarsi sulla scena dell’economia globale. Era mezzo secolo che non succedeva, se si esclude la fiammata programmata a freddo nel 1946-47, e i mercati non erano attrezzati psicologicamente per scontarne gli effetti. I governi non nascondevano affatto la loro volontà politica di dare priorità alla crescita, alla piena occupazione e al finanziamento della guerra del Vietnam e del welfare state, ma i mercati, mentalmente pigri, vissero il decollo dell’inflazione come uno scostamento temporaneo rispetto alla stabilità secolare dei prezzi.

Quando l’inflazione accelerò per effetto della crisi petrolifera del 1973, i mercati obbligazionari reagirono molto meno di quello che avrebbero dovuto e accettarono di fatto rendimenti reali negativi per due anni. È lo stesso fenomeno che si è prodotto nel 2020-2022, questa volta in misura ancora più penalizzante per gli obbligazionisti. Al punto che alla fine di giugno del 2022, con l’inflazione sopra il 9 per cento, i bond trentennali americani rendevano solo il 3 per cento e il tre mesi l’1,5.

Tornando agli anni Settanta, dopo lo shock iniziale, verso la metà del decennio si cominciò a capire che l’inflazione non era stata un temporaneo incidente di percorso, ma era diventata strutturale. Si notò del resto che i governi e le banche centrali cercavano certamente di contenerne la spinta anche accettando recessioni, ma erano impazienti di ripristinare la crescita il prima possibile, anche se la febbre dell’inflazione era solo scesa, ma non passata. Scottati dalle perdite di potere d’acquisto degli anni precedenti, i mercati obbligazionari divennero quindi diffidenti e iniziarono a esigere rendimenti reali positivi che compensassero almeno in parte la volatilità. La diffidenza divenne poi spirito militante con i bond vigilantes sempre pronti a punire la tolleranza dei governi verso l’inflazione. La sfiducia si cementò in certezza sulla volontà di debasement monetario e a un certo punto, tra il 1979 e il 1980, si tradusse in una clamorosa corsa all’oro, che in pochi mesi passò da 200 a 850 dollari l’oncia.

Con il senno del poi, sappiamo oggi che quel rialzo aveva lo sguardo rivolto all’indietro, non verso il futuro. Guardava cioè all’inflazione degli anni Settanta ed era l’ultima reazione esasperata al disordine monetario e fiscale di quella fase. Ma proprio mentre l’oro toccava i massimi, Volcker iniziava un ciclo di strette monetarie sempre più dure, con due recessioni una di seguito all’altra, e avviava il superciclo della disinflazione, che sarebbe durato fino al 2016.

In questi nostri anni Venti abbiamo ripercorso quella storia. Dopo la scottatura iniziale dei tempi del Covid, abbiamo così assistito prima al ripristino dei tassi reali positivi e poi all’imponente rialzo dell’oro. È successo perché si è capito che la priorità assoluta dei governi e delle banche centrali è la crescita, e non il controllo dell’inflazione.

C’è però una fondamentale differenza rispetto ad allora. Invece di una Fed che nel 1980 comprende l’insostenibilità della situazione e aziona il freno di allarme, abbiamo oggi la Fed del 2025-26 che si prepara a tagliare i tassi. Si dirà, ed è assolutamente vero, che l’inflazione giunse allora a sfiorare il 15 per cento, mentre oggi è solo al 3. Agli occhi del compratore d’oro questo significa però che possiamo andare avanti ancora a lungo con queste politiche di surriscaldamento programmato.

E poi, dice il compratore d’oro, non c’è solo l’inflazione. Allora il disavanzo federale era dell’1,5 rispetto al Pil, oggi è del 6,3. E il debito pubblico su Pil era del 32 per cento, oggi è sopra 100 e per il 2049 è proiettato al 144.

Insomma, come si vede, i mercati sono più propensi ad accettare le ondate di surriscaldamento violento (ma supposto breve) di quanto non accettino la sua forma cronica, soprattutto se proiettata in un futuro a lungo termine. Per non parlare, aggiunge il compratore d’oro, dei rischi di guerra fredda, tiepida o calda, dell’ipotesi che Cina e America trasformino la finanza in un’arma da usare l’una contro l’altra e dell’idea che Bessent intenda rivalutare l’oro di Fort Knox per poi darlo in garanzia alla Fed in cambio di qualche trilione di dollari. E poi c’è la Cina, che da tempo ha smesso di aggiungere altri dollari alle sue riserve e che preferisce convertire in oro i suoi imponenti surplus commerciali.

Il tema del debasement va poi al di là dell’oro e diventa in questa fase la cornice che contiene anche l’azionario, in particolare il value europeo ed emergente. A differenza dei cicli passati, il debasement non dirotta però capitali sull’immobiliare, ma solo perché questo ha già avuto nel mondo rialzi molto ampi in questi anni e perché il rallentamento dei flussi migratori sta moderando la domanda di case. Non dirotta capitali nemmeno sulle materie prime, immerse in un bear market secolare da cui emergono solo l’oro (che è di nuovo moneta), l’argento (domanda industriale e speculativa) e il rame. Quanto alle cripto, non è molto corretto intenderle come alternativa al dollaro e al fiat money, anche perché attirano proprio sul dollaro e sui Treasuries (attraverso le stablecoin) capitali che in altri tempi sarebbero finiti sull’oro.

La domanda, per un investitore, è quanto sia il caso di adottare il paradigma del debasement per strutturare il suo portafoglio. La risposta sarebbe facile (e darebbe luce verde al paradigma) se oro e borse non avessero corso così tanto.

Con queste valutazioni, ovviamente, occorre più cautela. Anche i beni rifugio, una volta finita l’emergenza, hanno i loro bear market, che possono anche essere molto lunghi. Se però è vero, come abbiamo provato a sostenere sopra, che ci troviamo non alla fine ma nel bel mezzo di un superciclo di surriscaldamento programmato (per ora ben controllato, ma con incognite geopolitiche evidenti), oro e azioni sono ancora da mantenere.

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