rosso e nero
a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

DIBATTITI

Sanzioni, oro, Cina, politiche monetarie

All’inizio del 1939 la Germania è in piena corsa al riarmo. Hitler ha un fortissimo bisogno di soldi e chiede alla Reichsbank di concedere ampi crediti al governo per finanziare la preparazione della guerra. Il governatore Hjalmar Schacht e alcuni componenti del direttorio della banca centrale, tutti membri del partito nazista, si oppongono alla richiesta e in una lettera dai toni molto accesi espongono i rischi di stabilità per il marco e di solvibilità per il Reich. Sanno che questo costerà loro il licenziamento.

All’inizio del 1939 la Germania è in piena corsa al riarmo. Hitler ha un fortissimo bisogno di soldi e chiede alla Reichsbank di concedere ampi crediti al governo per finanziare la preparazione della guerra. Il governatore Hjalmar Schacht e alcuni componenti del direttorio della banca centrale, tutti membri del partito nazista, si oppongono alla richiesta e in una lettera dai toni molto accesi espongono i rischi di stabilità per il marco e di solvibilità per il Reich. Sanno che questo costerà loro il licenziamento.

Poche settimane più tardi, in marzo, Hitler annette quello che resta della Cecoslovacchia e crea il Protettorato di Boemia e Moravia. La sua intenzione non è solo dettata dalla volontà di ampliare il Lebensraum, ma, più prosaicamente, anche dal desiderio di mettere le mani sull’oro cecoslovacco. Sette giorni dopo l’annessione la Germania chiede alla Banca dei Regolamenti Internazionali di spostare l’oro dal conto ceco al conto tedesco. La BRI chiede alla Bank of England, presso la quale sono materialmente custoditi i lingotti, di procedere. Il giorno successivo l’oro è diventato tedesco.

Per questa decisione la Bank of England subisce critiche dalla Francia e dallo stesso Tesoro britannico, ma difende fino all’ultimo la sua scelta. La BRI è nostro cliente, dice, e noi siamo tenuti contrattualmente a rispettarne le richieste. Qualche anno dopo, a Bretton Woods, il segretario al Tesoro americano Harry Dexter White chiederà di sciogliere la BRI, ma non se ne farà nulla.

La vicenda è stata ricostruita da Pavlos Roufos dell’università di Kassel sulla base di documenti recentemente pubblicati dalla Bank of England. Mostra, viene da dire, la radicale differenza tra come si ragionava una volta e come si ragiona oggi. Proviamo infatti a pensare a una Russia che, pochi giorni dopo avere invaso l’Ucraina, chiede alle banche centrali occidentali di consegnarle l’oro e i titoli che Kiev ha in custodia presso di loro e a una Fed, Bce e Bank of England che il giorno successivo dispongono il trasferimento. Come sappiamo, è andata diversamente e Stati Uniti ed Europa si apprestano a trasferire dalla Russia all’Ucraina oro e riserve russi detenuti in Occidente.

C’è, della vicenda delle regole sui rapporti internazionali che cambiano, una ricaduta sulla Cina e su quello che sta facendo la sua banca centrale, che negli ultimi tempi ha accelerato i suoi acquisti d’oro nonostante il forte rialzo di prezzo. Come sempre quando si parla di oro e come sempre quando si parla di Cina, il dibattito è animato e le posizioni radicalmente diverse.

Alcuni, la maggioranza, sostengono che la Cina e i cittadini cinesi stanno comprando oro perché è imminente una svalutazione massiccia del renminbi. Questa, a sua volta, sarebbe dovuta alle difficoltà strutturali dell’economia cinese e alla perdita di competitività nei confronti di Giappone e Corea del Sud, che hanno lasciato scendere lo yen e il won rispetto al dollaro.

La questione ci riguarda molto da vicino, perché se la Cina svalutasse e ci volessero, per esempio, 9 renminbi per comprare un dollaro invece dei 7.25 di oggi, la Cina regalerebbe al resto del mondo disinflazione e quindi tassi più bassi e borse più alte. La Cina farebbe infatti più fatica a comprare petrolio (il cui prezzo scenderebbe) e noi ne faremmo di meno a comprare i prodotti cinesi, che costerebbero ancora meno.

No, replica Louis-Vincent Gave, il rischio non è che ci svegliamo un giorno con il renminbi a 9, ma a 5. La Cina compra oro perché i suoi dollari tenuti all’estero sono diventati confiscabili (vedi Russia), ma soprattutto perché vuole costruire una valuta forte, un nuovo marco, che costituisca l’alternativa alla valuta dei debiti, il dollaro. La Cina, dice Gave, è pronta a introiettare deflazione con una valuta forte e non vuole farci nessun regalo. Al contrario, quando il renminbi sarà ancora più forte, la Cina venderà i suoi Treasuries, farà salire alle stelle i tassi di America ed Europa e ne provocherà la crisi.

Sono due ipotesi, il renminbi a 9 e il renminbi a 5, molto suggestive, ma non è detto che descrivano quello che effettivamente accadrà. La dirigenza cinese ha tempi lunghi su Taiwan e li ha anche sul renminbi. Ha un programma ambizioso, ma è estremamente cauta nel perseguirlo. Intende mostrare per ora più stabilità che forza. Né ha d’altra parte problemi così seri da dovere ripiegare su una svalutazione quando la bilancia commerciale è in surplus e l’economia cresce il triplo di quella americana (5 contro l’1.6 americano di oggi). Dovendo scommettere, punteremmo dunque su un renminbi stabile nell’orizzonte prevedibile.

Siamo in tema di dibattiti e accenniamo allora al fiorire di teorie sui tassi. Un recente articolo di Bloomberg rivaluta l’idea della Modern Monetary Theory secondo cui i tassi alti sono espansivi. Gli alti interessi alimentano infatti la capacità di spesa degli obbligazionisti e sono soldi trasferiti dallo stato all’economia privata. L’effetto positivo compensa (o più che compensa) i maggiori oneri per i debitori ed è per questo che l’economia americana non rallenta (l’articolo è stato pubblicato prima del dato di oggi sul Pil).

Un’altra tesi è che i tassi alti provocano inizialmente la cancellazione di alcuni progetti di investimento e di spesa, ma dopo il momento iniziale l’economia si adatta e riprende a crescere. L’effetto dei tassi alti, dunque, sarebbe decrescente nel tempo.

La teoria classica di consenso, al contrario, sostiene che gli effetti dei tassi alti si cumulano col passare del tempo. Il progressivo rallentamento dell’economia americana negli ultimi tre trimestri conferma questa ipotesi, ma la debole (ma percepibile) riaccelerazione dell’economia europea (nonostante l’Europa sia fiscalmente meno espansiva dell’America) la smentisce.

La nostra idea è che le politiche monetarie, per varie ragioni, non sono così restrittive come appaiono. È poi vero che gli obbligazionisti individuali ricevono più soldi con i tassi alti e che le grandi imprese hanno finora trovato il modo di neutralizzarli. È però anche vero che le piccole imprese escono perdenti e iniziano infatti, negli Stati Uniti, a essere più caute nell’investire e nell’assumere personale.

Insomma, è una realtà complessa. Il dato odierno del Pil americano non è forse negativo come sembra (meno crescita e più inflazione del previsto) ma si unisce a dati sugli utili delle società sostanzialmente in linea con le previsioni per farci ipotizzare una fase laterale delle borse. Tramontata l’idea della disinflazione immacolata e del mondo perfetto, entriamo in una fase in cui le politiche monetarie dovranno mordere almeno un poco e in cui un rischio di moderato rallentamento dell’economia americana verso la fine dell’anno è comunque presente. Borse e bond, dopo la correzione, sono su livelli equilibrati e anche interessanti, ma il loro recupero richiederà probabilmente qualche tempo.

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