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a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

DUE MONDI

Flessibilità americana, rigidità europea

Non si può dire che l’America e l’Europa abbiano reagito particolarmente bene, sul piano sanitario, alla pandemia. Il paragone con l’Asia non è lusinghiero e mostra quasi ovunque ritardi, impreparazione, approssimazione e carenza di coordinamento. L’estrema politicizzazione, che ha arruolato il virus nelle guerre culturali che devastano l’America ancor più che l’Europa, non è stata certo di aiuto, tanto che oggi abbiamo i farmaci di destra e quelli di sinistra mentre la mascherina, in molti stati americani, è diventata un segno di identità politica.

Non si può dire che l’America e l’Europa abbiano reagito particolarmente bene, sul piano sanitario, alla pandemia. Il paragone con l’Asia non è lusinghiero e mostra quasi ovunque ritardi, impreparazione, approssimazione e carenza di coordinamento. L’estrema politicizzazione, che ha arruolato il virus nelle guerre culturali che devastano l’America ancor più che l’Europa, non è stata certo di aiuto, tanto che oggi abbiamo i farmaci di destra e quelli di sinistra mentre la mascherina, in molti stati americani, è diventata un segno di identità politica.

Sul piano degli effetti economici della pandemia e delle misure di confinamento, l’America ha avuto un risultato meno negativo dell’Europa nel primo trimestre, ma questo riflette il ritardo con cui Covid è sbarcato sulle coste americane ed è poi penetrato all’interno. Nel secondo trimestre le cose si riequilibreranno, ma anche su questo piano l’Asia uscirà alla fine la più capace di tenersi insieme.

Dove le cose stanno andando meglio è sul piano delle misure di politica economica che si stanno adottando per contenere i guasti profondi della crisi e preparare la fase 3, quella della ricostruzione. Meglio non significa bene, intendiamoci. Per quanto grandiosi, i programmi sono ancora insufficienti, in particolare in Europa, e sono in alcuni casi in ritardo. Pur con le loro evidenti carenze, tuttavia, sono molto più ampi e sono arrivati prima di quello che ci si poteva aspettare alla metà di marzo, quando il panico si è impadronito dei mercati.

Due fattori hanno giocato in questo senso. Il primo è l’allentamento dei vincoli ideologici che hanno legato per quarant’anni governi e banche centrali all’ortodossia liberale. Concetti come monetizzazione del deficit, helicopter money, fine dell’austerità, ricongiungimento tra Tesoro e banca centrale, politica della domanda, ruolo degli investimenti pubblici erano già ampiamente nell’aria, quando non erano già praticati, prima della crisi e hanno permesso di non perdersi in tormenti dottrinari quando è arrivato il momento dell’emergenza. Il secondo è che erano dieci anni, dalla fine della Grande Recessione, che le banche centrali redigevano piani dettagliati per combattere la prossima recessione. E anche i governi sono stati più preparati, in particolare in America e in Germania, dove la recessione del manifatturiero è iniziata nell’agosto 2018 e il governo ha approntato per tempo una forte reazione frenata solo dal tabù del disavanzo zero, ora travolto.

Detto questo, America ed Europa stanno tentando strade diverse per rispondere alla crisi e queste strade avranno un peso decisivo nel disegnare il mondo del dopo-Covid. La diversità è evidente su quattro piani: unità d’intenti, velocità, quantità e qualità.

Accennavamo sopra alle guerre civili culturali che dilaniano l’America da mezzo secolo, che la figura di Trump ha infiammato ulteriormente in questi quattro anni e che un anno elettorale come il 2020 porta al massimo livello. Ebbene, nonostante questo, le misure economiche prese per battere la crisi sono state tutte bipartisan. Al punto che un Tesoro e una Fed diretti da due repubblicani hanno messo in piedi una struttura congiunta da mezzo trilione dedicata a finanziare gli stati e le città fortemente indebitati benché questi siano quasi tutti democratici e abbiano infranto per anni quella sorta di patto di stabilità interno che è l’obbligo di pareggio di bilancio inserito nella costituzione di tutti i 50 stati dell’Unione. Si noti anche che la Fed ha fatto sapere che non guarderà troppo per il sottile la qualità della carta che andrà a comprare.

La differenza tra un senatore Rubio, anticomunista come solo un figlio di profughi cubani sa essere, che dichiara che non bisogna guardare al passato ma continuare a garantire i servizi pubblici a tutti e il ministro olandese che fa la morale alle cicale mediterranee e una corte costituzionale tedesca che rimprovera alla Bce qualsiasi favoritismo (anche temporaneo) nei confronti dei paesi più colpiti dalla crisi è evidente.

C’è poi una differenza di velocità. A oggi il governo americano ha già trasferito più di un trilione a famiglie e imprese, mentre la Commissione europea definisce ambizioso far partire il Recovery Fund nel gennaio 2021. La velocità, in questo contesto, non è solo segno di efficiente amministrazione ma necessità vitale per salvare famiglie e imprese dalla bancarotta irreversibile. Certo, in Europa molto viene fatto a livello statale e Germania e Francia sono state veloci a distribuire soldi, ma lo stesso non si può dire per altre parti dell’Unione. Ovvio poi che chi si è già messo a posto da solo non abbia molta voglia di agire a livello di Unione e faccia anzi da freno.

Quanto alla politica monetaria, il bilancio della Fed è già cresciuto di due trilioni dall’inizio dell’anno, quello della Bce di 700 miliardi.

In termini di quantità totali di stimolo, l’America supererà alla fine i 10 trilioni, l’Europa si fermerà molto prima quale che sia alla fine l’importo che verrà stanziato per il Recovery Fund.

Ma è sulla qualità che le cose si fanno interessanti. L’Europa ha scelto di congelare grandi imprese e forza lavoro, garantendo di fatto lo stesso posto di lavoro nella stessa impresa in cui si lavorava prima della crisi. Macron si è spinto a dire che nessuna impresa francese uscirà di scena e che nel caso ci sarà nazionalizzazione, non chiusura. L’America ha dato invece libertà alle imprese di licenziare (provvedendo l’Unione a garantire ai disoccupati un reddito, talvolta superiore a quello precedente) o di conservare la forza lavoro e ricevere un aiuto pubblico di importo leggermente superiore. Moltissime imprese hanno preferito licenziare, al punto che i disoccupati hanno superato i 33 milioni e stanno rapidamente aumentando.

È probabile che la scelta americana provocherà un aumento della produttività (tipico dopo ogni recessione) che la scelta europea non potrà garantire. Molte imprese americane riassumeranno infatti meno dipendenti di quelli che hanno licenziato e ne approfitteranno per riorganizzarsi. D’altra parte i settori resi obsoleti dalla crisi verranno drasticamente ridimensionati e le persone che vi lavoravano si dovranno orientare verso i nuovi settori che potranno così assumere disoccupati senza fare leva sulla retribuzione. Chiaramente ci sono pro e contro nel modello americano e in quello europeo, ma sul lungo termine è chiaro quale dei due potrà funzionare meglio. La rigidità del modello europeo è d’altra parte evidente nello spirito da Gosplan con cui i pianificatori europei stanno progettando il Recovery Fund, che avrà come primo obiettivo il Green Deal sulla decarbonizzazione. Obiettivo nobile, ma non molto pragmatico in un momento in cui il petrolio è a 20 dollari e resterà basso ancora qualche anno.

La rigidità è del resto uno dei tratti più evidenti della sentenza della Corte costituzionale tedesca sul Qe europeo. La cultura giuridica tedesca è di altissimo livello, ma è anche testualista e, si direbbe in America, originalista. La cultura giuridica della tecnocrazia europea è invece quella del diritto che si evolve continuamente e forza la norma anche per vie traverse verso un’integrazione crescente, secondo lo spirito di Monnet e, prima ancora, di Kojève.

Il Qe pandemico della Bce (Pepp) è stato presentato dalla Lagarde come un’evoluzione rispetto al Qe classico perché non ne rispetta alcuni limiti (rating, massimo per emissione, capital key), ma se nemmeno il Qe classico rispettava secondo la corte tedesca i limiti imposti dallo statuto della Bce, possiamo ben immaginare che il Qe pandemico verrà a maggior ragione respinto quando verrà preso in esame nei prossimi anni.

Il conflitto tra la Germania e la Francia, la quale sta spingendo la Bce a ignorare la sentenza e a proseguire sulla sua strada, verrà probabilmente risolto con un compromesso. La Bce continuerà a fare Qe, sempre più necessario alla Francia ma utile anche alla Germania che vuole un euro debole, ma i paesi più in difficoltà verranno progressivamente dirottati verso il Mes, saldamente controllato dalla Germania e dotato di quella discrezionalità politica che la Bce stava provando a darsi. Se sarà così, il direttorio franco-tedesco sarà salvo, ma l’Unione sarà ancora meno omogenea.

Tirando le somme, le divergenze tra i modelli americano ed europeo continueranno a crescere durante e dopo la crisi almeno fino alle presidenziali, il dollaro continuerà a essere forte (anche se l’America manterrà una politica molto più espansiva) e la borsa americana continuerà a essere preferibile, anche perché ben fornita di comparti di crescita come la tecnologia.

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