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a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

ERRORI

Perché le previsioni sui tassi sono sempre sbagliate?

È un’idea diffusa, giusta o sbagliata che sia, che gli specialisti di bond siano freddi, analitici, asettici, quantitativi, razionali e prudenti. Gli specialisti di azionario sarebbero invece creativi, emotivi, maniaco-depressivi e, come tali portati agli eccessi. Ingegneri in camice bianco da una parte, scapigliati multicolori dall’altra.

È un’idea diffusa, giusta o sbagliata che sia, che gli specialisti di bond siano freddi, analitici, asettici, quantitativi, razionali e prudenti. Gli specialisti di azionario sarebbero invece creativi, emotivi, maniaco-depressivi e, come tali portati agli eccessi. Ingegneri in camice bianco da una parte, scapigliati multicolori dall’altra.

È poi un dato di fatto che gli strategist azionari, a parte rare eccezioni, trovano sempre il modo di prevedere rialzi annuali del 5-10 per cento, sia che i tassi salgano (segno di forza) sia che i tassi scendano (grande aiuto per l’economia). Accadde anche all’inizio del 2008 e finì purtroppo come sappiamo.

Meno noto o, meglio, meno commentato è invece il fatto che gli strategist obbligazionari sono sempre ribassisti e prevedono ogni anno tassi più alti di quelli che poi si vedono effettivamente sui mercati. L’ultimo caso clamoroso è proprio sotto i nostri occhi. Come ha osservato nei giorni scorsi il Wall Street Journal, nell’ottobre scorso, in occasione di un sondaggio tra 50 economisti di mercato, la media delle previsioni dava il decennale americano al 3.39 per la fine di giugno 2019. Eccoci a metà giugno e il decennale che vediamo è al 2.11. Come mirare a Marte e finire su Venere.

A discolpa parziale degli strategist obbligazionari si può invocare il fatto che a sbagliare previsioni è stata, per prima, proprio la Fed. E non solo questa volta, ma per tutti gli ultimi dieci e più anni. La Fed dapprima non ha visto arrivare la Grande Recessione e poi ha continuato a pensare che la ripresa successiva avrebbe prodotto più inflazione e tassi più alti di quelli che ci sono stati veramente.

Come si vede, al di là delle differenze di stile vere o presunte, azionario, bond e banche centrali hanno condiviso in questi anni lo stesso scenario di fondo, quello di una ripresa simile a quelle dei decenni precedenti, con un esaurimento graduale dell’output gap, un aumento della pressione salariale e dell’inflazione e quindi dei tassi. Il tutto, nella previsione, senza ipotizzare mai il momento della rottura, ovvero la fine del ciclo. Da qui previsioni azionarie di eterni rialzi e previsioni obbligazionarie di costanti rialzi dei tassi.

Abbiamo già parlato in passato del fallimento della curva di Phillips in questo ciclo. Nonostante la riduzione del numero dei disoccupati la pressione salariale, che secondo i modelli dovrebbe essere oggi molto forte, è in realtà modesta ed è coperta perfettamente dall’aumento della produttività. Nonostante il clamoroso mancato funzionamento, nessuno osa buttare via la curva di Phillips e quasi tutti, incluse le banche centrali, continuano a pensare che un giorno l’inflazione salariale si presenterà all’orizzonte come i Tartari. È un atto di fede che costa caro sia all’economia, che viaggia al di sotto del vero potenziale, sia ai gestori, che si sono tenuti spesso, in questi anni, su duration zero (il cash) o addirittura negativa (al ribasso sui bond).

Un’altra considerazione ha contribuito a mantenere inutilmente prudenti molti gestori obbligazionari, quella per cui al crescere ininterrotto dei disavanzi pubblici e degli stock di debito di molti paesi dovrà per forza accompagnarsi, prima piuttosto che dopo, un aumento dei rendimenti richiesti dal mercato.

In realtà, su questo punto, la casistica dimostra l’assenza di un nesso di causa effetto. È di queste ore il dato sul disavanzo americano dall’inizio dell’anno, che galoppa a briglia sciolta ed è di un terzo superiore a quello dello stesso periodo dell’anno scorso. Malgrado questo, il rendimento del decennale americano è oggi del 2.11, mentre un anno fa era del 2.97 per cento.

Si dirà che un anno è un periodo troppo breve per confronti di questo tipo, ma è indubbio che i rendimenti di oggi sono molto più bassi di quelli di 10, 20 o 30 anni fa, mentre lo stock di debito, sovrano, corporate e privato ha continuato a crescere quasi ovunque e non mostra nessuna intenzione di cambiare tendenza.

L’errore del mercato è stato (ed è) di non rendersi conto che l’aumento del debito induce istintivamente le banche centrali ad abbassare, non ad alzare i tassi reali (e persino i tassi nominali, quando è possibile) e a tollerare un giorno, quando verrà, una maggiore inflazione. Ci sarà un tempo in cui tutto questo finirà male? Probabilmente sì, ma i tempi potrebbero essere ancora lunghi.

Detto questo, è probabile che la tendenza alla discesa dei tassi a lungo sia per quest’anno vicina alla fine. Il rallentamento globale della prima metà del 2019, che ha così tanto contribuito al rialzo dei corsi dei bond, dovrebbe essere seguito nella seconda parte dell’anno come minimo da una stabilizzazione e, verosimilmente, da una modesta quanto ormai inattesa ripresa.

In particolare, non si ripeterà lo smaltimento delle scorte accumulate nel 2018. In pratica le scorte hanno gonfiato il Pil fino a marzo e ora lo sgonfiano. Quando si saranno stabilizzate il Pil globale riprenderà un po’ di colore. Lo smaltimento delle scorte ha infatti accelerato la caduta imponente e diffusa della produzione industriale, che difficilmente continuerà a scendere nei prossimi mesi.

Ora il mercato si aspetta molti tagli dalla Fed e li vuole in fretta. È ben possibile che la Fed fluida e flessibile di Powell conceda molti tagli, ma non con la fretta che pensa il mercato. E non con una borsa così vicina ai massimi.

Reclamare un taglio dicendo che le cose vanno male e festeggiarlo con la borsa quasi ai massimi ricorda la storia yiddish di quel giovanotto insolente che, dopo avere ucciso i genitori per futili motivi, si mette a piagnucolare davanti al giudice “Abbiate pietà di un povero orfano”.

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