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a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

I DAZI SUI CAPITALI

I mercati devono stare attenti a quello che desiderano

Nel luglio del 1963, quattro mesi prima di perdere la vita nell’attentato di Dallas, il presidente Kennedy introdusse l’Interest Equalization Tax (IET). Venivano da quel momento applicate un’imposta del 15 per cento sugli acquisti di azioni estere da parte di soggetti americani e un’imposta compresa tra il 2.75 e il 15 per cento per gli acquisti di obbligazioni emesse in valute estere.

Nel luglio del 1963, quattro mesi prima di perdere la vita nell’attentato di Dallas, il presidente Kennedy introdusse l’Interest Equalization Tax (IET). Venivano da quel momento applicate un’imposta del 15 per cento sugli acquisti di azioni estere da parte di soggetti americani e un’imposta compresa tra il 2.75 e il 15 per cento per gli acquisti di obbligazioni emesse in valute estere.

Già nel decennio precedente, sotto Eisenhower, l’America aveva iniziato a consumare più di quello che produceva e ad accumulare un disavanzo delle partite correnti. Questo disavanzo dava un impulso alla crescita globale ed era, fino a un certo punto, accettato volentieri da tutti. Oltre un certo livello, tuttavia, cominciava a creare dei problemi, anche perché non era compensato adeguatamente da afflussi di capitali esteri negli Stati Uniti ed erodeva la credibilità del dollaro, al tempo agganciato all’oro. Il problema aveva ancora dimensioni contenute, ben lontane da quelle che avrebbe assunto nella seconda metà dei Sessanta, quando le spese per la guerra in Vietnam e per la Great Society di Johnson avrebbero poi costretto il suo successore Nixon ad abbandonare la parità aurea e a svalutare il dollaro nel 1971. Pur con un problema ancora ai suoi inizi, tuttavia, già Eisenhower nel 1958 aveva iniziato ad agire sulle partite correnti, non con i dazi ma con un contingentamento delle importazioni di petrolio. Kennedy, nel 1963, vi aggiunse l’intervento sui movimenti di capitale con l’IET. Non sarebbe bastato, come abbiamo visto, ma portò comunque qualche temporaneo beneficio.

L’esperienza di quel periodo ci ricorda come sia più efficace, quando si cerca di riequilibrare i conti con l’estero, agire contemporaneamente sulle partite correnti (limitando l’import con dazi o contingentamenti e incentivando l’export) e sui movimenti di capitale. Mancò, negli anni Sessanta, il terzo fattore correttivo, il riallineamento dei cambi. Si era infatti in regime di cambi fissi, ma Nixon, constatandone l’insostenibilità, vi avrebbe presto messo fine.

Il contesto odierno, rispetto a quei tempi, vede un disavanzo americano delle partite correnti ancora più ampio, ma con la differenza che, mentre allora il disavanzo non era pienamente bilanciato dagli afflussi esteri di capitale, negli ultimi anni è stato più che compensato da questi stessi afflussi. Come conseguenza, il dollaro, che allora faticava a mantenere alto il suo livello di cambio, ha avuto fino a Trump il problema opposto, ovvero quello di continuare a rivalutarsi.

Per questa ragione, mentre Kennedy introdusse la tassazione sugli acquisti americani di titoli esteri (che indebolivano quel dollaro che si voleva difendere), Trump si muove, per ora dietro le quinte ma in modo sempre più evidente, per tassare gli stranieri che vogliono acquistare o mantenere il portafoglio titoli americani e che, così facendo, rafforzano quel dollaro che Trump vuole indebolire.

I mercati, nelle prime ore dopo la notizia, hanno festeggiato l’annullamento di alcuni dazi da parte del tribunale americano del commercio. Le borse, nel loro complesso, hanno del resto sempre auspicato l’introduzione di dazi più limitata possibile e quindi, come reazione automatica, hanno accolto con favore la loro parziale cancellazione. E tuttavia, come dice l’espressione inglese, bisogna sempre fare attenzione a ciò che si desidera, perché potrebbe realizzarsi e portare con sé effetti collaterali indesiderati. Tra questi, molto probabilmente, ci sarà il fatto che Trump e i repubblicani del Congresso, per compensare il minore aggiustamento delle partite correnti, cercheranno, tra le altre cose, di rafforzare l’azione sui movimenti di capitale, accelerando l’introduzione di misure penalizzanti per gli investitori esteri. Queste misure, che sono state finora pensate come circoscritte agli investitori di singoli paesi (quelli che, ad esempio, tassano o multano troppo spesso le multinazionali americane), potrebbero essere estese e generalizzate, con un aumento della trattenuta sui dividendi e con la reintroduzione della withholding tax sulle cedole obbligazionarie dei bond americani, Treasuries inclusi.

L’obiezione che misure del genere renderebbero più difficile e costoso il collocamento dei Treasuries ha certamente qualche fondamento, ma è possibile che l’amministrazione Trump ritenga che la sottoscrizione del debito americano, più che delle preferenze del mercato, sarà in futuro funzione degli accordi politici con i diversi stati nazionali. Sarà sulla base di questi accordi che i fondi sovrani e le banche centrali continueranno a sottoscrivere i Treasuries.

Staremo a vedere. Tutto è fluido in questo momento, anche perché l’amministrazione Trump troverà presto altri appigli legali per reintrodurre i dazi annullati e, all’occorrenza, cercherà, con la collaborazione dei repubblicani del Congresso, di crearne di nuovi. Quello che è importante capire è che la volontà politica di raggiungere un riequilibrio del commercio internazionale da parte dell’amministrazione resta intatta.

Nel frattempo ci muoviamo in un mondo alla Schroedinger. I dazi ci sono e non ci sono, l’inflazione c’è e non c’è, l’occupazione si indebolisce (poco) per certi dati ma rimane forte per altri, la crescita è forte o debole a giorni alterni, i profitti sono più bassi di come li si era previsti a inizio d’anno ma sono probabilmente migliori delle stime di consenso attuali, i tassi a lungo salgono ma sono ancora nel loro range degli ultimi mesi, la Fed non taglia ma taglierà di sicuro e di molto l’anno prossimo.

Nel complesso, rimanendo la recessione un’ipotesi che per ora non trova riscontro nei dati reali, il quadro generale rimane più favorevole alle borse che ai bond lunghi. Europa e Cina mantengono costanti i loro livelli di crescita e le banche centrali, Fed esclusa, continuano a tagliare i tassi una dopo l’altra. Gli effetti espansivi delle politiche fiscali in Cina e in Germania non sono ancora visibili, ma quando verso fine anno o inizio 2026 lo saranno, il tono dell’economia globale, migliorerà ulteriormente. L’alta tecnologia non ha più l’aura mistica in cui era avvolta l’anno scorso ma non è nemmeno più il peso morto che stava diventando dopo DeepSeek e conferma i suoi trend di crescita di lungo periodo.

Le prossime settimane saranno volatili. Ci saranno gli sviluppi geopolitici che tornano ad aggrovigliarsi, vedremo i primi dati che catturano sul serio gli effetti dei dazi, ci sarà un nuovo episodio della saga del debt ceiling in America, ci sarà la nuova finanziaria americana e assisteremo alla reazione rabbiosa di Trump sia sui dazi sia all’osservazione beffarda dei mercati per cui Trump Always Chickens Out (Taco, ovvero Trump le spara grosse ma poi si tira sempre indietro).

Molto rumore di fondo, dunque, ma continuazione dei trend strutturali, incluso il graduale e lento rimpatrio dei capitali asiatici ed europei investiti in America.

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