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a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

IL DECOLLO DEI TASSI

Per ora non fa paura, ma fino a quando?

Nei primi mesi di quest’anno, nel momento di euforia Belle Époque per i vaccini, le previsioni di consenso per il 2021 vedevano una crescita straordinariamente elevata dell’economia globale e un’inflazione che se ne risaliva pigramente verso il 2 per cento in Europa e il 2.5 in America. Nonostante le stime di crescita esplosiva, i tassi di policy erano visti tranquilli per tutto il 2021, il 2022 e la prima metà del 2023 (molti ipotizzavano un lungo tapering da metà 2022 a inizio 2023 e il primo rialzo della Fed a fine 2023). Con queste premesse si ragionava su una rapida risalita dei tassi a lungo termine. Questa risalita, a sua volta, avrebbe moderato la rivalutazione delle borse. L’indice SP 500, che aveva iniziato il 2021 a 3700, era visto portarsi sopra 4000 (non da tutti), ma solo i più arditi si spingevano a ipotizzare 4200-4300.

Nei primi mesi di quest’anno, nel momento di euforia Belle Époque per i vaccini, le previsioni di consenso per il 2021 vedevano una crescita straordinariamente elevata dell’economia globale e un’inflazione che se ne risaliva pigramente verso il 2 per cento in Europa e il 2.5 in America. Nonostante le stime di crescita esplosiva, i tassi di policy erano visti tranquilli per tutto il 2021, il 2022 e la prima metà del 2023 (molti ipotizzavano un lungo tapering da metà 2022 a inizio 2023 e il primo rialzo della Fed a fine 2023). Con queste premesse si ragionava su una rapida risalita dei tassi a lungo termine. Questa risalita, a sua volta, avrebbe moderato la rivalutazione delle borse. L’indice SP 500, che aveva iniziato il 2021 a 3700, era visto portarsi sopra 4000 (non da tutti), ma solo i più arditi si spingevano a ipotizzare 4200-4300.

Nessuna di queste previsioni si è rivelata corretta. Il Covid è ancora tra noi e i vaccini funzionano a metà. La crescita è quasi dimezzata rispetto a quella che si prevedeva, mentre l’inflazione è il triplo. Il tapering sarà veloce ed è già partito anche in Europa con la riduzione degli acquisti Pepp. I tassi di policy, dal canto loro, sono già decollati nel Regno Unito, mentre la Fed prepara tre rialzi per l’anno prossimo con il primo, forse, già in marzo. La curva dei rendimenti, che doveva farsi molto ripida, si sta invece appiattendo velocemente. E poiché l’azionario di crescita è prezzato con multipli agganciati ai tassi a lungo, ecco che la grande tecnologia americana ha continuato a gonfiarsi e ha permesso agli indici, aiutati anche dagli ottimi utili societari, di andare ben oltre le previsioni di inizio anno.
Che confusione. E che confusione anche adesso, sia per quanto riguarda l’orizzonte a 12 mesi sia per quanto riguarda i tempi di durata del ciclo espansivo in corso, di cui si comincia a discutere su quando finirà.

Partiamo dall’orizzonte a 12 mesi e proviamo a capire perché i mercati hanno preso così bene, almeno nella loro prima reazione, i numerosi segnali di volontà di normalizzazione monetaria anticipata espressi dalle banche centrali.
Erano già nei prezzi, si dice. Già, ma allora le borse avrebbero potuto semplicemente restare dov’erano, senza rimbalzare clamorosamente verso i massimi. E poi non tutto era già nei prezzi, a partire dal rialzo della Bank of England. C’erano coperture da smontare, si dice. Può essere. C’è il rally di fine anno da rispettare, si aggiunge. Certo, ma nel 2018, in presenza di un altro indurimento da parte della Fed pur con un’economia che stava rallentando, i mercati festeggiarono il Natale precipitando.

Forse il motivo reale è un altro. È vero, le banche centrali hanno abbandonato la finzione narrativa sull’inflazione come fenomeno transitorio (lo ha fatto perfino la Bce) e hanno voluto fare vedere che si sono accorte della possibilità che l’inflazione possa diventare strutturale. Hanno anche deciso di mettere in cantiere nove rialzi nei prossimi tre anni (in America) e di partire senza indugi (Bank of England).

Le banche centrali, in altre parole, hanno smesso di negare l’evidenza e di girarsi dall’altra parte di fronte agli aumenti dei prezzi e hanno aperto, accanto al fronte della crescita da stimolare, anche il fronte dell’inflazione da contenere. Il mercato ha però capito benissimo che questo secondo fronte, cui pure è stata concessa in dotazione una certa potenza di fuoco (Powell ha perfino accennato più volte all’avvio del Quantitative tightening dopo l’inizio del decollo dei tassi), resta comunque un fronte secondario, almeno per il prossimo anno, rispetto a quello della crescita da difendere.

In pratica, al primo segnale di difficoltà della crescita, il programma dei rialzi verrà interrotto quale che sia in quel momento il livello dell’inflazione. E dei nove missili pronti in questo momento sulla rampa di lancio (i nove rialzi indicati nei Dots per i prossimi tre anni) ne verrà fatta partire solo una parte (rinviando ovviamente anche il Quantitative tightening). D’altra parte una Fed che da febbraio, con le nuove nomine, sarà ancora più colomba, non esiterà a rinviare i rialzi in caso di bisogno.

Lo stesso atteggiamento è ben percepibile in Bce. Nel momento in cui si aumentano per la quinta volta le stime sull’inflazione nel 2022 e le si porta al 3.2 con rischi verso l’alto (un modo delicato per dire che la si stima vicina al 4) e però si ribadisce che i tassi rimarranno inchiodati a zero è chiaro che la priorità è la crescita, non l’inflazione.
E che dire della Bank of England? Con un’inflazione al 5 e la previsione della stessa banca centrale che arrivi al 6 in primavera, alzare i tassi da 0.1 a 0.25 sembra il ruggito del topolino.

Comprensibile, quindi, che i mercati si sentano più rassicurati che intimoriti.

Il problema dei ruggiti del topolino da parte delle banche centrali è che ne basteranno pochi, questa volta, per avere lo stesso effetto che i ruggiti del leone avevano nei tempi andati. La continua discesa del tasso neutrale, ovvero del tasso d’interesse che non fa né da stimolo né da freno dell’economia, fa sì che già nel 2023 i mercati potrebbero iniziare a preoccuparsi per la combinazione tossica di inflazione che rimane alta, crescita che perde velocità e tassi più alti e quindi sempre più a rischio di superare il livello del tasso neutrale e provocando una recessione.

E qui entriamo nel secondo punto di dibattito, quello sulla vita residua di questo ciclo espansivo. Qualcuno, mettendo insieme l’inversione della curva dei rendimenti già l’anno prossimo e l’esaurimento dell’output gap entro la fine del 2022, ipotizza la fine di questo ciclo dalla vita intensa ma breve come quella di una farfalla già nel 2023. Altri accarezzano invece l’idea di un atterraggio morbido accompagnato da un raffreddamento dell’inflazione che potrà prolungare il ciclo fino al 2025 e forse oltre.

Le incognite sono molte, a partire dal Covid e dagli effetti che la pandemia (o la sua fine) produrranno sull’offerta e sulla domanda globale e quindi sull’inflazione. Alla pandemia si aggiungono le incognite della transizione energetica su cui si sovrappongono quelle geopolitiche, come è evidenziato in queste ore dai prezzi stratosferici raggiunti dal gas in Europa.

Quello che sappiamo è che il 2022, volatilità a parte, dovrebbe avere, grazie all’atteggiamento ancora benevolo delle banche centrali un profilo più costruttivo, per chi investe, rispetto agli anni successivi. Bisognerà cercare di usarlo per mettere ancora del fieno in cascina.

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