Ci sono molti modi di misurare l’inflazione, ma sono tre quelli che hanno l’impatto più forte sul dibattito pubblico, sui mercati e nel comportamento degli elettori quando vanno al voto.
Ci sono molti modi di misurare l’inflazione, ma sono tre quelli che hanno l’impatto più forte sul dibattito pubblico, sui mercati e nel comportamento degli elettori quando vanno al voto.
Il primo è l’inflazione complessiva anno su anno, quella che fa i titoli sui giornali. Il secondo è l’inflazione istantanea annualizzata, quella che guardano (o dovrebbero guardare) i mercati. La differenza tra il primo e il secondo modo è la stessa che c’è tra il misurare da una parte quanti chilometri abbiamo percorso in macchina nell’ultima ora e, dall’altra, la velocità che ci indica in questo momento il tachimetro. Se nell’ultima ora abbiamo percorso 100 chilometri ma in questo momento siamo fermi è chiaro che parliamo di due situazioni completamente diverse.
Il terzo modo di guardare all’inflazione è tipicamente americano ed è il costo del pieno di benzina che si fa al centro commerciale quando si fa la spesa settimanale. A differenza degli acquisti che si fanno dentro il centro, che sono diversi da una settimana all’altra, i galloni da mettere nel serbatoio sono più o meno sempre gli stessi. Si tenga presente che le imposte sul carburante hanno un peso molto inferiore che in Europa, il che rende il prezzo della benzina americana più sensibile rispetto al prezzo effettivo del greggio (e al margine di raffinazione) e quindi più volatile del nostro.
L’importanza psicologica di questo terzo indicatore è difficile da sopravvalutare. Si provi a sovrapporre il grafico del prezzo della benzina e quello della popolarità di Biden e si vedrà una quasi perfetta correlazione inversa. I politici conoscono benissimo questa situazione, al punto che l’amministrazione Biden ha deciso nei mesi scorsi di scaricare sul mercato globale le ingenti riserve di greggio americane accumulate nei quarant’anni passati, programmandone le vendite esattamente fino a novembre, quando saranno quasi esaurite.
La liquidazione delle riserve ha interrotto il rialzo del petrolio, ne ha provocato una correzione di prezzo e ha avuto un grosso impatto (insieme al battage della Fed sulla nuova linea dura neovolckeriana) sulle aspettative di inflazione globali. La componente finanziaria del mercato delle materie prime è così passata da rialzista a ribassista e ha accentuato la discesa dei corsi di quasi tutte le materie prime.
Vedendo che la recessione temuta non stava ancora arrivando, che il mercato del lavoro rimaneva forte e che l’inflazione stava finalmente scendendo, il mercato azionario è rimbalzato, favorendo anche da questo lato le prospettive elettorali di novembre dei democratici.
Questo stato di grazia si prolungherà per tutto il terzo trimestre. Avendo il mercato azionario già recuperato molto (soprattutto per un rigonfiamento dei multipli e non per una correzione al rialzo delle stime sugli utili) lo stato di grazia non significa che il mercato continuerà a salire, ma che non si allontanerà troppo dai livelli attuali e non ritornerà subito ai minimi di giugno.
A corroborare questo stato di grazia saranno le conferme sul trend discendente dell’inflazione (a partire dal dato del mese prossimo) e le sorprese positive sul fronte dei consumi americani, che la discesa dell’inflazione farà apparire più alti in termini reali. Poiché i consumi costituiscono la parte decisiva del Pil, ecco che nei prossimi mesi ci potremmo trovare in una piccola Goldilocks di economia in riaccelerazione e inflazione in ritirata.
Sarà però un’estate di San Martino. A novembre, come abbiamo visto, le vendite delle scorte strategiche di petrolio termineranno. A quel punto, o la domanda di greggio (che finora non ha mostrato nessun segno di debolezza) inizierà a scendere per effetto di una recessione, o il prezzo del petrolio, che già adesso sembra mordere il freno, dovrà riprendere a salire.
Al di là delle manipolazioni del prezzo del greggio, ci sono fattori strutturali che renderanno molto difficile, se non per brevi fasi temporanee, il ritorno alla bassa inflazione del decennio scorso.
I mercati, ossessionati dalla politica monetaria, trascurano completamente le politiche fiscali, che, giusto o sbagliato che sia, non mostrano nessun segno di autodisciplina. La sola decisione annunciata ieri di condonare parte dei prestiti universitari americani porterà a un aumento dell’inflazione dello 0.3 per cento (e probabilmente anche di più, secondo Jason Furman, già capo economista di Obama).
Ma al di là delle mance preelettorali, ci sono da finanziare il riarmo, la ricostituzione di scorte strategiche e la transizione energetica. In più l’Occidente, come nota Zoltan Pozsar, dovrà reimparare, in tempi di guerra sempre meno fredda, a prodursi le cose da solo e questo comporterà costi ben più alti di quelli che in questi anni ci siamo abituati a pagare alle fabbriche cinesi e ai produttori di energia russi.
In questo contesto la politica monetaria non potrà diventare troppo restrittiva. Chi sostiene che i tassi americani dovranno salire ben oltre il 3.5 di consenso non tiene conto del Quantitative tightening e del dollaro forte. Il 3.5, o quello che sarà, dovrà tuttavia essere mantenuto più a lungo di quanto il mercato continui oggi a scontare. La Fed cercherà quindi di mantenere una linea intermedia, senza rialzi eccessivi dei tassi ma senza nemmeno ribassi al primo cenno di debolezza dell’economia.
Se avrà successo, la Fed otterrà una recessione debole nel 2023 seguita da una ripresa nel 2024 che dovrà però essere debole anch’essa se si vorrà evitare una riaccelerazione veloce dell’inflazione.
Mentre l’inflazione americana nei prossimi mesi scenderà, quella europea, prima di moderarsi l’anno prossimo, continuerà a salire verso il 10 per cento. Si raggiungeranno livelli ancora più alti nel Regno Unito, che scaricherà sugli utenti una parte più consistente degli esorbitanti aumenti del costo dell’energia, che in Europa saranno invece più sussidiati con l’effetto di provocare un aumento ulteriore dei disavanzi pubblici.
Come si vede il quadro è complesso. Le prossime settimane potrebbero essere un buon momento per alleggerire l’azionario e per creare liquidità da reinvestire l’anno prossimo.
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist del Gruppo e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.