rosso e nero
a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

LA DUREZZA DEI DATI

Spendiamo perché siamo felici o perché siamo infelici?

Negli anni Duemila, quando la Cina era arrivata a crescere del 13 per cento l’anno, era profondamente radicata, in Occidente, la convinzione che i suoi dati ufficiali fossero truccati e gonfiati per esigenze di propaganda. Si era così formata una cottage industry di sinologi occidentali (o di cinesi occidentalizzati) che si dedicava alla raccolta e allo studio esclusivo dei dati duri e verificabili, come il consumo di energia elettrica o di acciaio. Molto studiati, perché considerati non manipolati, erano poi i dati occidentali di interfaccia con la Cina, come il numero di container cinesi che arrivavano da noi e quello dei nostri container che partivano per Shanghai.

Negli anni Duemila, quando la Cina era arrivata a crescere del 13 per cento l’anno, era profondamente radicata, in Occidente, la convinzione che i suoi dati ufficiali fossero truccati e gonfiati per esigenze di propaganda. Si era così formata una cottage industry di sinologi occidentali (o di cinesi occidentalizzati) che si dedicava alla raccolta e allo studio esclusivo dei dati duri e verificabili, come il consumo di energia elettrica o di acciaio. Molto studiati, perché considerati non manipolati, erano poi i dati occidentali di interfaccia con la Cina, come il numero di container cinesi che arrivavano da noi e quello dei nostri container che partivano per Shanghai.

La cosa curiosa è che i dati ricostruiti in Occidente si rivelavano puntualmente molto simili a quelli ufficiali cinesi. Fu per questo che gli analisti che si dedicavano a questa ricostruzione dovettero a un certo punto riconvertirsi ad altre attività.
Oggi questo scetticismo sui dati ufficiali si va diffondendo in alcune parti dei nostri mercati. Ne elenchiamo brevemente le ragioni.

La prima è che i dati duri sono ampiamente corretti, prima di essere presentati al pubblico, da modelli statistici. Alcuni di questi, come quelli che destagionalizzano i dati, sono meritevoli e ampiamente accettati. Altri, meno noti, sono sempre più contestati. Si prenda ad esempio il numero dei nuovi posti di lavoro creati ogni mese negli Stati Uniti, uno dei dati più importanti per i mercati. Questo numero, che dopo il Covid si è stabilizzato su una media di 250mila unità mensili, è gonfiato di 100mila unità da un modello che ipotizza che nascano ogni mese nuove imprese in numero molto maggiore rispetto a quelle che chiudono. Ebbene, quando ogni anno si rifanno i conti a consuntivo, si scopre che il contributo delle nuove imprese alla creazione di nuovi posti di lavoro è stato molto più basso di quello ipotizzato dal modello. I nuovi occupati, di conseguenza, sono puntualmente meno di quello che si era inizialmente pensato (un milione in meno l’anno scorso).

La seconda ragione di cautela è che negli ultimi anni è andata crescendo la quota di dati soft rispetto a quella dei dati duri. I dati soft, come le indagini sulla fiducia delle imprese e dei consumatori o gli indici di diffusione (come quelli in cui si chiede alle aziende se sono andate meglio o peggio rispetto al mese precedente) aggiungono colore, ma non sono necessariamente affidabili. Per cominciare, sempre meno imprese (ormai meno della metà) rispondono ai questionari. Poi si è scoperto che non c’è una correlazione tra stato d’animo e comportamento. Ci si può dichiarare pessimisti sul futuro e spendere lo stesso molto in consumi, ad esempio, oppure vedere rosa e dichiararsi ottimisti e allo stesso tempo, proprio per questo, fare meno acquisti consolatori.

Si è poi notata una crescente influenza dell’orientamento politico sulle risposte ai questionari. I consumatori repubblicani, in questo momento all’opposizione, sono molto pessimisti, i democratici sono invece più soddisfatti. Qui non è chiaro, e non lo sarà mai, se sia la scelta politica a determinare il grado di fiducia o viceversa.

La scoperta più recente, segnalata da Jim Bianco, è che l’indice delle sorprese positive o negative, che mette insieme dati duri e dati soft e che è sempre più guardato dai mercati, dà negli ultimi tempi risultati molto diversi se si scorporano i dati soft e si guardano solo i dati duri. Questo indice, lo ricordiamo, ha registrato quest’anno un’ampia prevalenza di sorprese positive. Nelle ultime settimane l’indice si è però bruscamente indebolito. C’è ancora una prevalenza di sorprese positive, ma la differenza tra dati attesi e dati effettivi si è molto ridotta.

Questo ha confermato nei mercati il sospetto che sia in corso un brusco rallentamento della crescita americana e ha spinto al rialzo i corsi dei bond lunghi. Se però si scorporano i dati duri dall’indice delle sorprese, si scopre che questi sono ancora molto positivi. A diventare negative sono solo le sorprese sui dati soft.

Da questa rassegna risulta come sia difficile leggere in questa fase la realtà presente e, ancora di più, prevederne l’evoluzione. È difficile anche per le banche centrali, che dopo anni passati a coltivare la guidance (ovvero a prendere per mano i mercati e guidarli nella direzione desiderata), comunicano oggi tutte quante un grado elevato di incertezza. Affermando di essere dipendenti dai dati che usciranno di volta in volta, le banche centrali si espongono all’accusa di guidare guardando lo specchietto retrovisore e di non avere strategia, perché i dati fotografano il passato, non il presente e tantomeno il futuro.

I mercati, dal canto loro, continuano a cercare un paradigma. Dopo il no landing degli ultimi mesi siamo passati questa settimana a riesumare per qualche ora lo spettro dell’atterraggio duro, salvo poi ripensare tutto e propendere per una riedizione del soft landing. Ricordiamo che il no landing favorisce la borsa rispetto ai bond lunghi, l’atterraggio duro favorisce i bond lunghi rispetto alla borsa e il soft landing è moderatamente positivo per tutti.

Nel dubbio, il mercato ha deciso di comprare tutto, sia azioni sia bond lunghi. La logica sottostante è che la put della Fed, con le elezioni che si avvicinano, è sempre più forte. Qualsiasi debolezza verrà contrastata energicamente con tagli dei tassi. Ergo, non ci sarà debolezza per l’azionario (perché la crescita sarà difesa a tutti i costi) e non ci sarà per l’obbligazionario (perché i tassi verranno tagliati).

Troppo bello per essere vero? No, almeno fino a novembre. Il rischio, come hanno ricordato in questi giorni Larry Summers e Jeffrey Gundlach, è che l’evidente priorità data dalle banche centrali alla crescita rispetto all’inflazione (dimostrata anche dalla Bce con il taglio di oggi) possa rialimentare tensioni sui prezzi l’anno prossimo.

In pratica rimaniamo investiti in borsa perché la Cina, nonostante tutto quello che si dice, continua a crescere bene, perché l’Europa è in accelerazione e perché i dati duri americani, fino a questo momento, continuano a essere positivi. Restiamo sui bond brevi e apriamo una piccola posizione tattica sui bond lunghi come copertura nel caso, improbabile, che l’America rallenti davvero.

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