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a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

LA PAUSA

Scegliere, o borse ai massimi o tagli dei tassi

C’era una volta il Gosplan, il Comitato statale per la pianificazione. Istituito nel 1921, dal 1928 al 1991 redasse i celebri piani quinquennali dell’Unione Sovietica. Ebbe una fase calda e romantica, che coprì la prima metà della sua esistenza, in cui prevalse l’aspetto epico della sfida ai limiti posti dalla natura attraverso quella che venne definita l’industrializzazione forzata. E ne ebbe una fredda e tecnocratica, in particolare durante la stagnazione brezneviana, durante la quale la pianificazione centrale venne presentata dalla propaganda ufficiale come il distillato del socialismo scientifico. Il pianificatore non era più quello che cercava di organizzare il lancio del cuore collettivo oltre l’ostacolo ed era diventato l’ingegnere in camice bianco che con i suoi modelli cibernetici assicurava il raggiungimento efficiente degli obiettivi economici fissati dal partito.

C’era una volta il Gosplan, il Comitato statale per la pianificazione. Istituito nel 1921, dal 1928 al 1991 redasse i celebri piani quinquennali dell’Unione Sovietica. Ebbe una fase calda e romantica, che coprì la prima metà della sua esistenza, in cui prevalse l’aspetto epico della sfida ai limiti posti dalla natura attraverso quella che venne definita l’industrializzazione forzata. E ne ebbe una fredda e tecnocratica, in particolare durante la stagnazione brezneviana, durante la quale la pianificazione centrale venne presentata dalla propaganda ufficiale come il distillato del socialismo scientifico. Il pianificatore non era più quello che cercava di organizzare il lancio del cuore collettivo oltre l’ostacolo ed era diventato l’ingegnere in camice bianco che con i suoi modelli cibernetici assicurava il raggiungimento efficiente degli obiettivi economici fissati dal partito.

Come finì l’Unione Sovietica è ben noto, ma non toglie che il modello della pianificazione centralizzata, in un Novecento già di suo statolatrico, affascinò non solo i regimi totalitari europei degli anni Trenta, ma anche Roosevelt, che accarezzò in vari momenti l’idea di adottarlo negli Stati Uniti. La seconda guerra mondiale fu del resto il trionfo dell’economia di comando e della militarizzazione dell’intero apparato produttivo.

Dopo la guerra anche in Occidente la voglia di pianificazione passò dalla fase epica a quella tecnocratica. Pur accettando il mercato, la programmazione economica, che ebbe qualche diffusione soprattutto in Europa, cercò di massimizzare la crescita con politiche di investimenti pubblici e di sostegno alla domanda aggregata. Ebbe dei successi innegabili, ma raggiunse il suo limite quando la domanda aggregata cominciò a superare l’offerta aggregata di risorse e iniziò a generare inflazione invece di crescita.

Da allora i policy maker d’Occidente si sono dedicati a gestire il lato dell’offerta, anche qui con successi iniziali (l’inflazione è scesa, la produttività è rimbalzata) seguiti però da problemi nella fase più recente (deflazione, produttività stagnante, risorse inutilizzate). La voglia di pianificazione non è comunque mai scomparsa del tutto e si è semplicemente reincarnata, passando dalla politica fiscale alla politica monetaria.

I banchieri centrali sono oggi considerati il nuovo Gosplan globale. Gli estimatori vedono di questo il lato positivo, rappresentato dalla capacità di farci uscire dalle crisi, di mantenere l’inflazione quasi perfettamente sotto controllo e di disegnare e ingegnerizzare quelle grandi e complesse operazioni di reflazione degli asset che tanto hanno giovato agli investimenti finanziari in questi dieci anni. I detrattori, dal canto loro, puntano il dito sulla repressione finanziaria (i tassi artificiosamente bassi che provocano l’eutanasia del rentier), sulla zombificazione del sistema, la soppressione del valore segnaletico dei prezzi di mercato e l’incapacità, alla fine, di evitare nuove crisi.

Su quest’ultimo punto, la possibilità o meno di evitare nuove crisi, si è riacceso di recente il dibattito nei mercati. Incoraggiati dall’apparente incrollabilità del ciclo di espansione iniziato dieci anni fa e dalla fortissima ripresa delle borse in questo 2019, i mercati, nei giorni scorsi avevano cominciato a ricamare sull’ipotesi del meltup (l’esplosione delle quotazioni verso l’alto). Il meltup sarebbe stato reso possibile dall’allineamento straordinario di fattori favorevoli, tra cui l’inflazione in discesa, l’economia globale in ripresa a perdita d’occhio nello spazio e nel tempo e la possibilità non di uno, ma di ben due ribassi dei tassi entro la fine dell’anno, un po’ perché Trump ne chiede quattro e un po’ perché comunque alla Fed può interessare assicurarsi contro l’eventualità di un rallentamento.

Ora è vero che l’allineamento astrale è favorevole (per quest’anno) e che teoricamente, per il mercato, potrebbe verificarsi il miracolo della botte piena e della moglie ubriaca (economia che va bene, borsa ai massimi di tutti i tempi e Fed che taglia i tassi). La Fed è così potente, nel suo ruolo di pianificatore centrale del mondo, da potere farci toccare per qualche tempo il paradiso senza che questo produca effetti collaterali immediati negativi.

Sarebbe però avventato e diseducativo. Avventato perché a sparare per aria per festeggiare si sprecano munizioni (i ribassi dei tassi) che potrebbero essere meglio utilizzate quando c’è da combattere davvero il rallentamento. Diseducativo perché cominciare a parlare di ribassi (come si sperava che Powell facesse) con la borsa sui massimi di tutti i tempi significa viziare i mercati e spingerli verso un’inutile bolla.

I ribassi prima o poi ci saranno, ma il mercato dovrà guadagnarseli soffrendo, cioè scendendo. Non sarà necessario scendere molto, intendiamoci, ma bisognerà almeno mostrare un po’ di umiltà. Se poi le borse vorranno continuare a salire, saranno liberissime di farlo, ma non potranno avere anche il bonus del taglio dei tassi. La borsa che sale, del resto, è già l’equivalente di un ribasso dei tassi, perché abbassa il costo del capitale per le imprese.

La delusione per una Fed accomodante ma non superespansiva ha interrotto il rialzo delle borse. Considerando il miglioramento di tono dell’economia globale e, negli Stati Uniti, l’ottimo andamento del fattore più importante di tutti, la produttività, l’interruzione del rialzo è da considerare più una pausa che un segnale di inversione di tendenza. Rimaniamo quindi investiti.

Concludiamo ritornando al tema del Gosplan e consigliando caldamente la lettura dell’ultimo scritto di Ray Dalio sul futuro della politica monetaria (Time to Look More Carefully at MP3 and MMT), uno sguardo penetrante sul prossimo decennio e sul mondo che verrà dopo la prossima recessione. Se MP1 era la politica monetaria basata sui tassi e MP2 è stata quella del Qe, MP3 sarà quella che agirà di concerto con la politica fiscale.

Dalio non demonizza né sostiene la MMT, ma si limita a considerarla come uno dei possibili numerosi esiti del continuum tra monetario e fiscale che si verrà a creare nel mondo di domani. Che è già in parte sotto i nostri occhi, perchè i tassi a zero, uno dei cardini della MMT, sono ormai una realtà permanente in Europa e in Giappone e un giorno potranno diventarlo anche in America. Così come è ormai una realtà di fatto, quasi ovunque, la monetizzazione dei disavanzi pubblici.

Oltre ai tassi a zero, il mondo che verrà non avrà più i Qe per i ricchi ma quelli per i poveri (o li avrà entrambi). L’inflazione verrà controllata per via fiscale, spendendo o tassando, ma la politica fiscale, per essere tempestiva e non troppo politicizzata, potrà essere delegata almeno in parte alle autorità monetarie, che potranno alzare o abbassare l’Iva come oggi fanno con i tassi.

È un mondo nuovo affascinante, a tratti inquietante, in cui saremo esposti all’abuso delle armi potenti che verranno utilizzate. Chi le userà saggiamente sarà salvato, chi le userà male sarà perduto.

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