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a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

LA QUESTIONE FONDAMENTALE

Tante domande, ma una sola è decisiva

Fino a Hegel e ai suoi epigoni la filosofia ha dato risposte. Giuste o sbagliate che fossero, esprimevano un pensiero forte e talmente sicuro di sé da spingersi a fornire un senso non solo all’universo ma anche al suo creatore. Se oggi si apre una qualsiasi introduzione alla filosofia, si legge che il suo obiettivo non è quello di dare risposte, bensì quello di aiutare a porre correttamente le domande più profonde. Non che cosa sia l’essere, per esempio, ma perché esista l’essere e non il nulla. E così via.

Fino a Hegel e ai suoi epigoni la filosofia ha dato risposte. Giuste o sbagliate che fossero, esprimevano un pensiero forte e talmente sicuro di sé da spingersi a fornire un senso non solo all’universo ma anche al suo creatore. Se oggi si apre una qualsiasi introduzione alla filosofia, si legge che il suo obiettivo non è quello di dare risposte, bensì quello di aiutare a porre correttamente le domande più profonde. Non che cosa sia l’essere, per esempio, ma perché esista l’essere e non il nulla. E così via.

Certo, avere risposte è meglio che avere domande ben poste. D’altra parte, avere domande ben poste è meglio che niente. In questo spirito proveremo oggi a definire la domanda fondamentale che chi investe deve porsi in questo autunno 2019 e, più in generale, in questo autunno del lungo ciclo espansivo iniziato nel 2009 e di cui ancora non è nota la data di chiusura.

Premettiamo che ci sono molte altre domande interessanti. Quando finirà questo ciclo? Sta già finendo? Che ne sarà della montagna di debito accumulata in questi ultimi settanta anni? Esistono strumenti di policy sufficienti per impedire un nuovo 2008? Bisogna davvero vendere tutto e comprare lingotti d’oro per sopravvivere alla prossima recessione? Ha senso avere tutte queste paure quando, con un minimo di riaccelerazione ciclica e con i tassi così bassi, l’azionario potrebbe toccare nuovi massimi l’anno prossimo?

Queste e altre, sono tutte domande importanti e difficili. Una domanda, tuttavia, sta più in profondità delle altre e ha una natura decisiva.

Qual è la funzione di reazione dei policy maker?

Prima di affrontare questa domanda, proviamo a sgombrare il terreno da alcune questioni. La prima è che non è vero che stiamo raschiando il fondo del barile e che con i tassi già straordinariamente bassi, i bilanci delle banche centrali già stracarichi di titoli e le politiche fiscali già espansive non abbiamo più armi per combattere la prossima recessione. Non è vero perchè in questi dieci anni non abbiamo usato nemmeno tutti gli strumenti elencati da Bernanke nel suo celebre discorso del 2002 (Deflation. Making Sure It Does Not Happen Here). Solo per fare qualche esempio, né la Fed né la Bce hanno fatto Quantitative easing azionari o immobiliari, né hanno comprato grandi quantità di bond esteri. I governi, dal canto loro, hanno oggi disavanzi fiscali che superano il 4 per cento solo negli Stati Uniti, mentre la Germania è addirittura in surplus. In più, oltre agli strumenti convenzionali e non convenzionali ormai entrati nell’uso, ce ne sono altri ancora più aggressivi allo studio. Ci riferiamo ad esempio al controllo completo della curva dei rendimenti, al finanziamento diretto di governi, imprese e individui da parte delle banche centrali o alle varie forme di helicopter money da una parte e di repressione finanziaria dall’altra.

La seconda è che, se si vuole davvero creare inflazione, si può. L’hanno fatto Zimbabwe e Venezuela ed è difficile pensare che il migliaio di PhD che popolano gli uffici studi delle maggiori banche centrali non riescano a produrre un millesimo di quello che hanno fatto senza sforzo a Caracas o a Harare.

Insomma, si può fare tutto, almeno in una prima fase. Il problema, dunque, non è che cosa si può fare, ma che cosa si vuole fare e in che fase della recessione si vuole agire. La funzione di reazione, appunto.

Trump vuole agire addirittura prima della recessione e soffocarla quando è ancora in mente Dei. Vuole i tassi a zero e il Qe quando le stime più aggiornate sul terzo trimestre danno il Pil americano ancora in crescita di un più che dignitoso 2.2 per cento. Ha una fretta terribile, Trump, è divorato dai giorni che passano e dai sondaggi difficili. Vuole nuovi massimi di borsa, crescita al 3 per cento e spazio per potere mettere i bastoni tra le ruote alla Cina e alla Germania senza doversi preoccupare delle ricadute sugli Stati Uniti. Sta studiando un taglio del cuneo fiscale e non si cura delle stime del Congressional Budget Office, che ha appena calcolato un disavanzo federale medio del 4.3 per cento da qui al 2029 a legislazione invariata (quando si sa già benissimo che, se la legislazione varierà nei prossimi anni, sarà per andare ben oltre il 4.3).

All’opposto c’è la Germania, dove, dopo un anno di crisi pesante della principale industria nazionale e dell’intero export, si discute se sia il caso di passare dal surplus di bilancio a un modestissimo 0.35 di disavanzo o se sia meglio aspettare che la recessione del manifatturiero si sia estesa a tutta l’economia prima di sporcare l’immacolato bilancio pubblico con 12 miliardi di spese per l’ambiente.

Per chi investe, ci sembra, non è decisivo sapere se l’SP 500 ha spazio per salire a 3100 (ce l’ha, anche se non subito) o se la Fed taglierà di 50 o di 75 punti base da qui a fine anno. Quello che è decisivo è capire se banche centrali e governi useranno le armi pesanti subito oppure quando le borse saranno già scese del 30 o se addirittura lasceranno che si scenda del 60 come nel 2008-2009. Il tempo ci darà la risposta, ma si può già adesso avanzare l’ipotesi che questa volta la pressione della politica e dell’opinione pubblica sarà tale, almeno in America, da costringere la Fed a mettere da parte qualsiasi idea di reazione ordinata e proporzionata e ad agire fin da subito con la massima energia. Se questo butterà giù il dollaro tanto meglio, visto dall’America, perché costringerà anche i fautori di una reazione lenta e meditata alla crisi (come la Germania) a darsi una mossa, pena vedere l’euro rafforzarsi proprio mentre la recessione si aggrava.

Insomma, la differenza tra un SP 500 a duemila e uno a mille, tra resistere per qualche mese prima della ripresa e vendere nel panico ai minimi, passa dalla velocità e aggressività della reazione monetaria e fiscale americana, posto che dalla Cina, la prossima volta, ci sarà da aspettare molto meno aiuto che nel 2008.

La nostra scommessa è il 2019 e la prima metà del 2020 procederanno senza scosse troppo violente e che solo più avanti le cose si complicheranno sul serio. Se una reflazione aggressiva, soprattutto di origine fiscale, dovesse davvero fare risalire l’inflazione, avere bond potrebbe diventare rischioso.

Ogni anno ha la sua croce, in ogni caso, ed è presto per farsi carico dei problemi del prossimo decennio. Per quest’anno si andrà avanti zoppicando e magari, ogni tanto, lamentandosi delle banche centrali se faranno qualcosa di meno del molto che hanno già promesso. A fine anno si farà un bilancio e si constaterà che utili molto simili a quelli del 2018 saranno da scontare a tassi molto più bassi. Forse non si faranno nuovi massimi, ma si potrà recuperare il terreno eventualmente perduto nei mesi precedenti.

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