All’inizio di gennaio il mercato era arrivato ad attendere 163 punti base di tagli dei tassi americani entro dicembre. Altri tagli erano previsti per il 2025 e il 2026. La stessa Fed indicava un tasso terminale di lungo periodo del 2.5, composto da un 2 per cento di inflazione e uno 0.5 di tasso reale.
All’inizio di gennaio il mercato era arrivato ad attendere 163 punti base di tagli dei tassi americani entro dicembre. Altri tagli erano previsti per il 2025 e il 2026. La stessa Fed indicava un tasso terminale di lungo periodo del 2.5, composto da un 2 per cento di inflazione e uno 0.5 di tasso reale.
Oggi i mercati si accontentano di un totale di 129 punti base di tagli entro la fine del 2027, da effettuare in larga misura non nel 2024 ma nel 2025.
Ci possono essere solo due ragioni per cui in soli tre mesi i mercati hanno cambiato idea così radicalmente. La prima, la più discussa in queste ore, è che hanno corretto al rialzo le loro attese sull’inflazione di medio termine, che non è vista più come già in prossimità del 2 per cento ma è attesa sopra il 3 per cento per tutto l’orizzonte prevedibile.
La seconda, meno visibile ma sottintesa, è che si esclude la possibilità di una recessione almeno fino a tutto il 2027. Se ci fosse una recessione, infatti, la Fed taglierebbe immediatamente e aggressivamente anche in presenza di un rallentamento superficiale.
Nel corso di due anni esatti, dalla primavera-estate del 2022 a oggi, la funzione di reazione della Fed rispetto a una possibile recessione è cambiata radicalmente. Due anni fa Powell disse con enfasi, ripetendolo continuamente per alcuni mesi, che la Fed non avrebbe esitato a provocare una recessione pur di essere sicura di riportare l’inflazione al 2 per cento. Powell disse anche che l’occupazione avrebbe dovuto in ogni caso (quindi anche senza recessione) ritornare sopra il 4 per cento, in modo da garantire un mercato del lavoro più equilibrato.
Ieri sera Powell, nella conferenza stampa successiva al Fomc, ha fatto invece capire che la priorità della Fed non è più l’inflazione, ma la difesa dell’occupazione. Ha ammesso che l’inflazione sta risalendo da tre mesi, ma ha escluso altri rialzi dei tassi. In compenso ha detto e poi ripetuto che al primo cenno di indebolimento del mercato del lavoro la Fed, indipendentemente da quello che farà l’inflazione, taglierà immediatamente i tassi. L’ha detto due giorni dopo che l’Employment Cost Index del primo trimestre è risalito all’1.2 (il 5 annualizzato) e un giorno prima dei dati sul costo del lavoro per unità di prodotto, passato dal 4 al 4.7.
In pratica, con un’inflazione salariale che sta risalendo e con sussidi di disoccupazione ai minimi storici, la Fed si dice più preoccupata per un possibile raffreddamento che per un surriscaldamento del mercato del lavoro. Il 4 per cento di disoccupazione (oggi siamo al 3.8), che due anni fa era un obiettivo da raggiungere, è diventato un livello da evitare e per evitarlo, se occorre, verranno tagliati i tassi.
Il tetto sui tassi proclamato da Powell diventa, nella traduzione dei mercati, un pavimento per gli asset finanziari. La recessione, che i mercati hanno incorporato come possibilità nelle loro attese per il 2022 e per il 2023 e che non si è mai realizzata, viene ora esclusa negli anni a venire. Esce di scena anche Goldilocks, entra in scena il boom inflazionistico accompagnato dalla put della Fed.
In questi anni i mercati hanno imparato che non bisogna guardare solo alla politica monetaria, ma anche alla spesa pubblica e ai suoi effetti di stimolo. Il Fondo Monetario ha ricalcolato il disavanzo pubblico americano del 2023, ufficialmente al 6.5 per cento del Pil, è lo a portato all’8.8. Quest’anno è previsto più basso (e infatti il Pil cresce un po’ meno) ma nel 2025, secondo le stime del Fondo, sarà comunque del 7.1 (senza calcolare le nuove spese che l’amministrazione Biden proporrà al Congresso nei prossimi mesi).
La persistenza di elevatissimi disavanzi pubblici pur in presenza di piena occupazione e di crescita vivace ha due ragioni politiche, una di ordine interno e l’altra di ordine internazionale. La prima, che vediamo nei paesi occidentali, è la forte concorrenza nella ricerca del consenso elettorale tra l’establishment classico e le forze che lo vorrebbero sostituire. Lo abbiamo visto negli Stati Uniti dal 2016 e lo vediamo oggi in Francia con un Macron che, per recuperare consenso, mantiene il disavanzo pubblico sopra il 5 per cento.
La seconda ragione è la competizione geopolitica globale, che continuerà a provocare una corsa al riarmo e una altrettanto costosa transizione energetica che avrà tempi dettati più da preoccupazioni strategiche che da motivazioni ambientali.
In questo scenario è difficile pensare a una recessione, ma è anche improbabile che l’inflazione torni a scendere stabilmente. Ci saranno certamente tentativi di contenimento temporaneo dei prezzi (si pensi all’uso delle riserve strategiche di petrolio da immettere sul mercato per fare scendere il prezzo della benzina). Ci sarà anche, da parte delle banche centrali, il continuo ribadire che l’obiettivo finale è il ritorno dell’inflazione al 2 per cento. I fattori strutturali, tuttavia, continueranno a premere nella direzione opposta.
Gli asset finanziari si trovano a questo punto in un limbo. La fine di Goldilocks spariglia le carte, che prima erano buone per tutti e ora sono più complicate da giocare. In assenza di recessione, di repressione finanziaria e di controllo di curva le tensioni inflazionistiche si scaricano in prima battuta sui bond lunghi, che sono però il primo violino dell’orchestra e guidano al ribasso i multipli azionari. La put della Fed, il permanere della crescita e il miglioramento degli utili offrono in compenso un importante sostegno all’azionario.
In questo momento, come osserva Bob Elliott, i tassi a lungo sono abbastanza alti da frenare gli asset finanziari ma non sono così alti da frenare la crescita e da permettere alla Fed di tagliare i tassi di policy.
È un limbo che potrà essere confortevole se ci si manterrà sugli elevati rendimenti dei bond brevi e se si eviteranno gli eccessi di volatilità, tipica dei titoli di crescita, con una buona diversificazione azionaria.
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist del Gruppo e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.