rosso e nero
a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

NON È LA PRIMA VOLTA

Tassi e multipli del passato con i Fed Funds al 5 per cento

Siamo arrivati alla fine del ciclo di rialzo dei tassi d’interesse. Fed e Bce hanno lasciato aperta la porta a un rialzo conclusivo in giugno, ma giugno sarà il mese in cui lo scontro politico sul tetto all’indebitamento americano sarà più acuto. In un clima che rischia di diventare incandescente, anche per la delicata situazione di alcune banche regionali, difficilmente la Fed avrà il coraggio di alzare di nuovo. Per la Bce c’è qualche possibilità in più, o per lo meno queste sono le sue intenzioni al momento.

Siamo arrivati alla fine del ciclo di rialzo dei tassi d’interesse. Fed e Bce hanno lasciato aperta la porta a un rialzo conclusivo in giugno, ma giugno sarà il mese in cui lo scontro politico sul tetto all’indebitamento americano sarà più acuto. In un clima che rischia di diventare incandescente, anche per la delicata situazione di alcune banche regionali, difficilmente la Fed avrà il coraggio di alzare di nuovo. Per la Bce c’è qualche possibilità in più, o per lo meno queste sono le sue intenzioni al momento.

Che sia arrivato il top adesso o che ci sia una coda in giugno, possiamo comunque cominciare a fare qualche considerazione sul posizionamento degli asset finanziari rispetto al livello raggiunto dai tassi.

A chi si è formato come investitore nel decennio scorso il 5.25 per cento raggiunto dai Fed Funds appare altissimo e destinato di conseguenza a rientrare rapidamente. Il mercato, del resto, sconta un dimezzamento di questo livello nei prossimi due anni e ipotizza il tasso di policy americano al 2.65 già nella primavera del 2025.

In realtà, andando a esaminare gli ultimi 30 anni, vediamo che, con l’eccezione del decennio scorso, il 5 per cento è stato un livello quasi normale, pur in presenza di un’inflazione non particolarmente elevata. L’inflazione media, dal 1990 al 2020, ha oscillato infatti intorno al 2.5 per cento (vicina al 3 per cento nei primi 20 anni e al 2 nel decennio scorso).

I Fed Funds, dal canto loro, hanno oscillato tra il 5 e il 6.50 dall’inizio del 1995 fino alla fine del 2000 e sono stati sullo stesso livello di oggi, il 5.25, per un anno e mezzo tra il 2006 e il 2007.

Negli anni in cui i Fed Funds sono stati su questo livello, il Treasury decennale ha sempre offerto rendimenti di gran lunga superiori a quelli attuali. Tra il 1995 e il 2000, a parte una breve parentesi legata alla crisi asiatica, il decennale ha reso il 6 per cento circa. Nel 2006-2007 il rendimento è stato del 4.75. Oggi il decennale rende il 3.37.

Perché questa differenza, pur in presenza di livelli d’inflazione simili e con tassi di policy molto vicini a quelli di oggi? Pur con la doverosa premessa che ogni periodo fa storia a sé, le ragioni potrebbero essere tre.

La prima, sistemica, è che la produttività è scesa, trascinando il tasso naturale verso il basso.

La seconda, legata ai flussi, è che sono cresciuti i risparmi e scesi gli investimenti, creando più offerta e meno domanda di denaro.

La terza, psicologica, è che oggi, abituati dal decennio scorso a considerare naturale un’inflazione molto bassa, riteniamo quasi ovvio, molto più che negli anni Novanta e Duemila, che il due per cento (al massimo aggiornato al 3) sia un livello fisiologico.

Ci sarebbe anche una quarta ragione, la repressione finanziaria. Finora questa è stata particolarmente evidente e dichiarata in Giappone, con il controllo di curva esercitato dalla banca centrale. Interessante a riguardo è il recente annuncio della Yellen di volere creare un fondo del Tesoro per il riacquisto di titoli governativi. La motivazione ufficiale è quella di garantire liquidità al mercato. Potrebbe però trattarsi anche di uno strumento volto al controllo di curva.

E l’azionario? Che multipli si pagavano per l’equity quando i Fed Funds erano sui livelli odierni? Si pagò di più di oggi nella fase finale degli anni Novanta, quella della bolla legata a Internet. Si pagò di meno (15 volte gli utili contro le 18.5 di oggi) tra il 2006 e il 2007, in una fase meno movimentata.

Tirando le somme, le valutazioni attuali degli asset finanziari riflettono nei prezzi una visione in rosa, per gli anni prossimi, sia dell’inflazione sia degli utili. Una tale visione è perfettamente legittima ma, essendo già nei prezzi, limita il potenziale di apprezzamento. È anche per questo che la fine del ciclo di rialzo dei tassi, che storicamente ha prodotto rialzi azionari vicini al 10 per cento nei mesi successivi, avrà questa volta un effetto più contenuto.

Questa volta c’è del resto da fare i conti con un’economia che non ripartirà con uno scatto e che rimarrà sotto pressione fino all’inizio del 2024. Se eviteremo la recessione, come è possibile, il prezzo da pagare sarà quello di una crescita molto bassa per un periodo piuttosto lungo.
Nelle prossime settimane, d’altra parte, l’upside sarà limitato dalla prospettiva di momenti di tensione sulla questione del debt ceiling tra giugno e luglio.

L’aspetto positivo del quadro attuale è che anche il downside appare abbastanza contenuto. Oggi i mercati scontano il primo taglio dei tassi già in settembre. Se non ci sarà, come è probabile, ci sarà qualche momento di delusione. Procedendo verso la fine dell’anno, tuttavia, la prospettiva di un ciclo di ribasso dei tassi (sia pure lento e limitato) e di una ripresa dell’economia globale nel 2024 fornirà ai mercati azionari un supporto importante.

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