Si possono provare a spiegare i nuovi massimi storici delle borse di questi giorni con l’ottima crescita americana e con il rilancio cinese. Chi vuole avventurarsi in spiegazioni politiche può dal canto suo aggiungere altre due letture.
Si possono provare a spiegare i nuovi massimi storici delle borse di questi giorni con l’ottima crescita americana e con il rilancio cinese. Chi vuole avventurarsi in spiegazioni politiche può dal canto suo aggiungere altre due letture.
La prima sostiene che l’amministrazione uscente e la Fed a maggioranza democratica cercano di spingere la borsa per mostrare in modo immediato e spettacolare che l’economia, il tallone d’Achille della Harris per via dell’inflazione di questi anni, va a gonfie vele. L’amministrazione, trattenendo temporaneamente Netanyahu e Zelensky, aiuta la borsa liberandola dalle preoccupazioni geopolitiche fino al voto. La Fed, da parte sua, la aiuta con il taglio di 50 punti base e con l’adozione di un atteggiamento espansivo, anche a spese dei bond (meno appariscenti nella percezione pubblica).
La seconda lettura politica, offerta ieri anche da Druckenmiller, è che la borsa sale perché anticipa non solo una vittoria di Trump, ma anche la conquista repubblicana di entrambi i rami del Congresso.
Quale che sia la sostanza di queste ipotesi, è certo che la reazione che vedremo nelle ore immediatamente successive al voto del 5 novembre sarà ispirata non dai fondamentali, che non cambieranno nella notte postelettorale, ma da attese politiche. Sarà una reazione vivace che comporterà probabilmente un aumento della volatilità, peraltro già in crescita da alcuni giorni, offrendo opportunità di trading.
Va chiarito subito che le reazioni a caldo difficilmente avranno un autentico valore predittivo. In primo luogo, lo spoglio delle schede, che nelle contee contese e decisive si protrarrà per giorni e forse settimane, potrà alla fine rovesciare l’esito immaginato inizialmente. Sarà infatti di nuovo il voto postale, scrutinato dopo quello in cabina e spesso oggetto di contestazioni, a offrire le maggiori sorprese. In secondo luogo, la storia, anche quella delle elezioni del 2016 e del 2020, è andata spesso in direzioni molto diverse da quelle che i mercati avevano immaginato subito dopo il voto.
Nel 2016, la reazione immediata della borsa alla vittoria di Trump fu molto negativa, salvo diventare positiva nel giro di poche ore. Nel 2020, la vittoria di Biden, che si era presentato con un programma aggressivamente espansivo, spinse al rialzo l’oro, che chiuse l’anno a 1950, salvo ritrovarsi ancora a 1800 nell’ottobre 2023. Quanto al dollaro, le scommesse su un suo indebolimento legate al protezionismo di Trump ne comportarono effettivamente una forte discesa durante il primo anno della sua amministrazione. Nei tre anni successivi, tuttavia, quando furono davvero alzati i dazi, il dollaro recuperò tutto quello che aveva perduto nel 2017.
Questa volta è possibile che, in caso di vittoria di Trump, il mercato provi di nuovo a vendere immediatamente dollari, anche perché Trump e Vance hanno detto spesso di volere un cambio molto più debole. Poiché una vittoria della Harris non sposterebbe il dollaro, il rischio di coprire adesso una parte dell’esposizione appare basso, tanto più partendo dagli attuali livelli di forza.
Attenzione, però. I dazi, di per sé, tendono a rafforzare la valuta del paese che li impone, non a indebolirla. Può quindi darsi che Trump e Vance vogliano semplicemente bilanciare, con le loro minacce di svalutazione, l’effetto rialzista dei dazi. In questo caso, come otto anni fa, avremmo un effetto iniziale di indebolimento, seguito poi da un recupero quando i dazi venissero davvero applicati.
A questo va aggiunto che la Fed, in caso di vittoria di Trump, taglierà i tassi molto meno che in caso di vittoria della Harris. Anche questo potrebbe moderare l’eventuale immediato indebolimento del dollaro.
La diversa funzione di reazione della Fed, soprattutto in caso di vittoria repubblicana completa, manterrebbe piatta la curva dei rendimenti. Ci sarebbe invece molto bull steepening (tassi di policy in veloce discesa e tassi a lungo stabili o in rialzo) in caso di vittoria della Harris.
Un altro tema su cui arrivare preparati al voto è il petrolio, centrale per la determinazione dei livelli d’inflazione. Verosimilmente la Harris, nonostante i suoi pronunciamenti passati contro il fracking, confermerà la linea di Biden favorevole a mantenere ampi livelli di estrazione di fossili. Trump, dal canto suo, si profila ancora più aggressivo. Da come parla, scaverebbe un pozzo anche nella Stanza Ovale se ci fosse una goccia di petrolio nel sottosuolo. Questo atteggiamento induce alcuni ad anticipare un buon andamento dei titoli petroliferi, che potrebbero produrre dappertutto a volontà. Niente di più sbagliato. In un mondo che ha fin troppo petrolio e in cui la domanda cinese si orienta sempre più verso il gas per i mezzi pesanti e verso il carbone per le auto elettriche, produrre più petrolio farebbe scendere il greggio verso i 50 dollari e ridurrebbe i margini delle società petrolifere.
Si potrebbe quindi vendere petrolio in caso di rialzo dopo una vittoria di Trump, se non fosse che dopo il voto diverrebbe inevitabile l’atteso attacco israelo-americano all’Iran. La richiesta americana di non colpire le installazioni petrolifere iraniane vale probabilmente fino al voto e, in ogni caso, non va presa alla lettera.
Terminata la fase delle reazioni immediate al voto, entreremo nel lungo interregno che terminerà a fine gennaio con l’insediamento della nuova amministrazione e del nuovo Congresso. Poi comincerà la fase di 18-20 mesi in cui la nuova amministrazione sarà più produttiva.
In caso di vittoria parziale, i contrappesi tra Casa Bianca e Congresso limiteranno l’azione di Trump ai dazi e all’immigrazione e quella della Harris alla politica estera. Ma anche in caso di vittoria completa, come fu il caso di Obama nel 2008 e di Trump nel 2016, dopo due anni, solitamente, viene persa almeno una camera.
È poi una legge della politica che le maggioranze ampie o complete generano divisioni interne (come abbiamo visto nel caso recente dei conservatori inglesi) e stimolano i centristi ad alzare il prezzo della loro collaborazione e a rifiutare le proposte più radicali (come è stato il caso di Manchin e Sinema nel Senato uscente).
Tutto resta dunque complicato e induce a non reagire eccessivamente alle novità che si profilano all’orizzonte.
Rimane decisivo, di fondo, un atteggiamento generale pro-crescita che continua a farci preferire le borse rispetto ai bond lunghi.
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist del Gruppo e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.