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a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

TEMPI INTERESSANTI

È fragile l’economia o sono fragili i nostri nervi?

Il ricordo delle esperienze particolarmente dolorose dura tutta la vita. Alla borsa di New York occorsero 24 anni per ritornare, nel 1954, ai livelli del 1929. Ci vollero il grande rilancio economico del New Deal, quello ancora maggiore dovuto alla guerra, la fiammata inflazionistica del dopoguerra (che avrebbe dovuto spingere in alto il valore delle azioni come bene rifugio) e la grande e solida ripresa degli anni Cinquanta per spingere gli investitori ad apprezzare di nuovo l’investimento azionario. E per un altro quarto di secolo quasi esclusivamente banche e fondi pensione investirono in borsa, mentre il grande pubblico riprese a interessarsi di azioni solo negli anni Ottanta, mezzo secolo dopo la Grande Depressione.

Il ricordo delle esperienze particolarmente dolorose dura tutta la vita. Alla borsa di New York occorsero 24 anni per ritornare, nel 1954, ai livelli del 1929. Ci vollero il grande rilancio economico del New Deal, quello ancora maggiore dovuto alla guerra, la fiammata inflazionistica del dopoguerra (che avrebbe dovuto spingere in alto il valore delle azioni come bene rifugio) e la grande e solida ripresa degli anni Cinquanta per spingere gli investitori ad apprezzare di nuovo l’investimento azionario. E per un altro quarto di secolo quasi esclusivamente banche e fondi pensione investirono in borsa, mentre il grande pubblico riprese a interessarsi di azioni solo negli anni Ottanta, mezzo secolo dopo la Grande Depressione.

Grazie al Quantitative easing, dopo la crisi del 2008-2009 sono occorsi solo 5 anni per ritornare ai massimi del 2007 e già nel 2018 abbiamo raggiunto livelli doppi rispetto al 2007. Il trauma della crisi non è dunque visibile nelle performance di borsa, ma traspare in compenso in tanti nostri modi di ragionare.

Il trauma è evidente ogni volta che l’economia rallenta e, magari solo per un trimestre, presenta un modesto segno negativo, come è stato tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016 e come è stato di nuovo in questi ultimi tre mesi. Rispunta puntualmente la temibile sindrome del 1937, quando economia e borse precipitarono non perché fosse successo chissà che cosa (c’era stata una restrizione fiscale e monetaria, certamente prematura, ma che in tempi normali sarebbe stata considerata trascurabile) ma perché si pensava che ogni nuova crisi sarebbe stata una riedizione dell’orribile esperienza della depressione.

Una seconda conseguenza del trauma è che la stessa piccola recessione che ci aveva fatto temere il peggio mentre ci eravamo in mezzo, ci appare un’inezia una volta che ne siamo usciti, al punto che non la consideriamo nemmeno più una recessione. Questo succede perché l’idea che abbiamo di recessione è quella che ci siamo formati nel 2008, il resto sono sciocchezze.

Questa percezione crea delle distorsioni. La crisi del 2015-16, negli anni Cinquanta, sarebbe stata ricordata negli annali come una recessione. Con questo criterio oggi staremmo entrando nel quarto anno di ripresa e considereremmo il ciclo ancora giovane. Se però retrocediamo la crisi del 2015 -16 a modesto incidente di percorso, la contabilità del ciclo ci dice che siamo al decimo anno di ripresa e che la fine non può che essere vicina.

Questa fragilità di nervi sembra estendersi alle banche centrali, come dimostra la loro riluttanza ad abbandonare il Qe negli anni scorsi e la disponibilità della Fed a passare da un atteggiamento ultrarestrittivo in ottobre a uno espansivo meno di quattro mesi più tardi, con un’economia americana in crescita e una borsa sotto i massimi di tutti i tempi solo del 9 per cento.

I casi infatti sono due. O è molto fragile l’economia e la Fed vede qualcosa di negativo che noi non vediamo oppure sono davvero fragili i nostri nervi, inclusi quelli di chi tra noi fa il banchiere centrale.

Nella prima ipotesi, quella di una crisi reale, c’è da approfittare del rialzo per correre a vendere. Come ricorda David Rosenberg, il mercato non va comprato quando la Fed smette di alzare i tassi e nemmeno quando inizia a tagliarli, ma qualche mese dopo che ha finito di tagliarli.

Nella seconda ipotesi, quella di una crisi di nervi, c’è da concludere che siamo tornati al mondo dorato degli anni scorsi, con economie in crescita mediocre e banche centrali, proprio per questo, sempre pronte a coccolare e sostenere i mercati. In pratica, c’è da rimanere investiti, tanto in azioni quanto in bond e in crediti. E questa è l’ipotesi che preferiamo.

Un’altra annotazione è che la domanda di reflazione da parte dell’opinione pubblica continua a essere fortissima. Bastò il rallentamento del 2015-16 per fare invocare l’helicopter money, ovvero la monetizzazione di nuova spesa pubblica. Oggi, dopo tre mesi spiacevoli, ma non devastanti, è tutto un parlare di Modern Monetary Theory, ovvero di disavanzi e debito in libera e gioiosa espansione finché non incontrano il limite dell’inflazione. Perfino Powell, in conferenza stampa, ha indicato la sola inflazione come il fattore che potrebbe indurre la Fed a ridiventare restrittiva. Niente più rialzi preventivi, prudenziali. Niente più piena occupazione. Niente più politica monetaria che deve anticipare di uno-due anni il ciclo. La MMT, fino a ieri eresia, è già tra noi e sarà alla Casa Bianca alla fine dell’anno prossimo se un indipendente come Schultz o come Bloomberg non riuscirà a disperdere i voti e a fare rivincere Trump. Il quale Trump, di suo, potrebbe anche cogliere lo spirito del tempo, cosa che spesso sa fare, e ripresentarsi con una piattaforma ultraespansiva ma senza le tasse chieste dalla sinistra.

La MMT non invoca tasse alte. Lo stato, sostiene, non ha bisogno di raccogliere i soldi che spende con le tasse o con i bond, perché può pagare tutto con una semplice scrittura elettronica. Le tasse servono solo come strumento per regolare l’inflazione, alzandole quando è troppo alta e abbassandole quando è bassa.

Il fatto che le piattaforme dei candidati democratici alla Casa Bianca invochino abbondantissimi aumenti di tasse per ricchi e ultraricchi (e per le imprese) non c’entra con la MMT. Va certamente incontro agli umori di una parte degli elettori ma non è al centro delle loro domande, che sono di crescita, spesa e di reflazione. Se il nuovo presidente democratico non riuscirà a produrre crescita, verrà cambiato anche lui e si procederà per tentativi ed errori finché non ci sarà reflazione.

Quello che abbiamo descritto non è uno scenario favorevole per il dollaro. Prima di vedere un rialzo dell’euro occorrerà però aspettare la fine della minirecessione europea in corso e la conclusione dei negoziati commerciali con l’Europa che Trump avvierà subito dopo avere concluso quelli con la Cina.

Qualcuno ha sostenuto la tesi suggestiva che la Fed ha bisogno di una borsa forte per potere riprendere ad alzare i tassi da giugno in avanti. In questo caso le prospettive per il dollaro tornerebbero positive. Vedremo, ma in ogni caso nel breve nessuno parlerà di rialzi dei tassi.

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