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a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

UN MONDO INSTABILE

Per ora tutto bene, molte incognite a medio termine

Quando la prima guerra mondiale terminò, come ci ricorda Gary Shilling, si diffuse l’idea che, come dopo ogni conflitto, ci sarebbe stato un brusco calo di commesse pubbliche a cui sarebbe andata a sommarsi la disoccupazione di molti dei soldati ritornati dal fronte. Le imprese cercarono quindi di limitare la produzione e di soddisfare la domanda dei loro prodotti liquidando le scorte di prodotti finiti.

Quando la prima guerra mondiale terminò, come ci ricorda Gary Shilling, si diffuse l’idea che, come dopo ogni conflitto, ci sarebbe stato un brusco calo di commesse pubbliche a cui sarebbe andata a sommarsi la disoccupazione di molti dei soldati ritornati dal fronte. Le imprese cercarono quindi di limitare la produzione e di soddisfare la domanda dei loro prodotti liquidando le scorte di prodotti finiti.

Invece della depressione temuta, tuttavia, si verificò, soprattutto in America, un boom del credito, delle esportazioni e dei consumi, che erano stati compressi durante il conflitto e ora riemergevano prepotenti. Trovandosi senza scorte, le imprese corsero a ordinare materie prime e semilavorati e poiché entrambi scarseggiavano, anche a causa del sistema dei trasporti intasato, ordinarono in realtà molto più di quanto serviva nel timore di riceverne dai fornitori solo una parte. Ovviamente i prezzi, ora liberi di muoversi dopo il controllo del tempo di guerra, si impennarono, creando ulteriore panico nelle imprese compratrici che, nel timore di ulteriori rialzi, rincorsero i prezzi che salivano pur di ottenere i componenti che servivano.

L’inflazione salì bruscamente ma, così facendo, compresse il potere d’acquisto dei consumatori, che già a metà del 1920 furono costretti a ridurre la domanda. Dopo poche settimane le imprese si ritrovarono con i magazzini che continuavano a riempirsi e la richiesta dei loro prodotti in forte calo. Furono allora prese di nuovo dal panico e cancellarono gli ordini che avevano ancora in corso. I prezzi e la produzione crollarono e il Pil americano si contrasse del 13 per cento tra il 1920 e il 1921, lasciandosi dietro una scia di fallimenti industriali.

Con la pandemia e i lockdown, nella primavera-estate del 2020, la contrazione di molte economie è stata nell’ordine del 10 per cento e le imprese si sono precipitate a cancellare le ordinazioni di componenti, tagliando la produzione e liquidando le scorte di prodotti finiti. È stata una reazione automatica, dettata dall’istinto di sopravvivenza, che non ha però tenuto in conto la fragilità politica di molti governi e la loro conseguente disponibilità a gettare alle ortiche l’ortodossia monetaria e fiscale e inondare di stimoli l’economia. Questa fragilità politica, oggi ancora più evidente dopo il voto in Virginia e New Jersey, si tradurrà per qualche tempo ancora in ulteriori stimoli o, in ogni caso, nel ritardare all’estremo l’adozione di misure di normalizzazione, come ci mostra la decisione odierna della Bank of England.

La forza di questi stimoli è tale che per ancora sei-nove mesi (il tempo di votare in Francia e di preparare il terreno al midterm americano) economie e mercati verranno portati vicini al livello di surriscaldamento. Sarà bello continuare a essere investiti in azioni senza subire danni (se non sul potere d’acquisto) dalla componente obbligazionaria del portafoglio.

Questo non dovrà però fare dimenticare che stiamo vivendo all’interno di un grande esperimento in un ambiente reso instabile dalla violenza della depressione dello scorso anno e dalla forza ancora superiore della reazione di policy. È come spingere un motore al massimo. È bellissimo se tutto va bene, ma è anche sempre più rischioso se lo si spinge troppo a lungo.

In questo contesto, l’inflazione resterà transitoria ancora per due-tre trimestri, la scarsità di semiconduttori per ancora un anno e forse più, quella di gas e petrolio almeno fino a primavera, mentre gli ingorghi nel sistema dei trasporti si risolveranno lentamente. Il concetto di transitorio, in altre parole, continuerà a essere stiracchiato a lungo.

A lungo, ma non in eterno. A un certo punto, forse già a metà del 2022, si dovrà fare seriamente il punto e decidere come proseguire. Non sarà per niente facile, perché gli errori di politica monetaria saranno possibili non in una sola direzione (come pensa il mercato che teme solo rialzi prematuri dei tassi) ma in due. Si rischierà infatti da una parte di alzare i tassi in un momento in cui l’economia si prepara già di suo a rallentare. Dall’altra, per paura di fare danni, si rischierà di rinviare la normalizzazione e lasciare correre l’inflazione, che sarà fra nove mesi più bassa di adesso ma ancora molto al di sopra degli obiettivi ufficiali, con il rischio di una seria perdita di credibilità. Se poi a novembre il Congresso tornerà ai repubblicani, sempre fiscalmente virtuosi quando alla Casa Bianca c’è un democratico, le cose si complicheranno ulteriormente.

Altre complicazioni verranno dal fatto che un’economia globale in via di frammentazione e segmentazione avrà dinamiche di settore difficilmente prevedibili. Possiamo essere quasi certi che l’attuale penuria di semiconduttori, quando i giganteschi investimenti in programma entreranno in produzione, si trasformerà in sovrabbondanza, ma non sappiamo se questo servirà a gettare un po’ d’acqua sul fuoco di un’inflazione ancora forte o se invece manderà impulsi deflazionistici ulteriori in un momento di rallentamento o di recessione.

Ma non basta. La transizione energetica potrà essere un fattore di stabilizzazione ciclica grazie al ruolo degli investimenti pubblici, ma nei primi anni aumenterà la nostra dipendenza da gas e petrolio e ne manterrà alti i prezzi.
È comprensibile, in questo contesto, che le banche centrali siano sempre più abbottonate nella loro guidance e come la Fed, l’unica grande banca centrale che può ancora permettersi il lusso di alzare i tassi, abbia affrettato il passo del tapering per avere modo di iniziare i rialzi, se necessario, a metà dell’anno prossimo.

Tutto fa pensare che governi e banche centrali si spingeranno a livelli mai visti negli ultimi decenni per sostenere la crescita ed evitare cadute cicliche. È bello saperlo e restare nella scia dell’espansione con i portafogli ben carichi di rischio. Ma è anche bene ricordare che più a lungo prevale l’idea della crescita a tutti i costi più sale il rischio di instabilità.

Detto questo, è difficile vedere problemi seri per i mercati da oggi all’inizio dell’anno nuovo. Il Pil americano è in forte recupero e questo, tra l’altro, permetterà di correggere il brutto dato odierno sul costo del lavoro per unità di prodotto nel terzo trimestre.

Se la pandemia non rialzerà la testa, le prossime settimane continueranno quindi a vedere bond tranquilli e borse solide.

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