rosso e nero
a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

VOLARE BASSO

I mercati non sono calmi, sono incerti

Il voto americano del 5 novembre è stato vissuto come la scelta tra due alternative radicalmente diverse, quasi come uno scontro di civiltà. Anche i mercati lo hanno vissuto come un bivio tra continuità da una parte e svolte di grande ampiezza dall’altra.

Il voto americano del 5 novembre è stato vissuto come la scelta tra due alternative radicalmente diverse, quasi come uno scontro di civiltà. Anche i mercati lo hanno vissuto come un bivio tra continuità da una parte e svolte di grande ampiezza dall’altra.

Nei fatti, tuttavia, la reazione dei mercati è stata finora limitata. Rispetto alla sera del 5 novembre, quando ancora non si conosceva l’esito del voto, il Treasury decennale americano è praticamente invariato (rende il 4.27 contro il 4.26 di allora). L’indice SP 500 è salito del 3.7 per cento, una variazione simile a quella del novembre 2016, quando Trump era stato eletto la prima volta. Non è poco, ma non è nemmeno tanto se pensiamo che in agosto, nei tre giorni di crisi del carry trade sullo yen, l’indice si era mosso del 6 per cento. Ancora meno si è mosso il Nasdaq, che pure è il simbolo dell’eccezionalismo americano, salito del 3.4 per cento.

Dalla sera del voto l’euro è sceso del 3.6, ma il Bund ha guadagnato il 2.2 e il Dax lo 0.7. Più penalizzata la Cina, con la borsa scesa del 4.3 e il renminbi dello 0.7. L’oro, dal canto suo, è sceso del 3.6. Tutto qui.

Si possono dare due tipi di spiegazione per questo comportamento. La prima è che la vittoria di Trump era stata in parte anticipata, anche se nelle ultime settimane prima del voto i sondaggi indicavano una sostanziale parità. Trump è d’altra parte un’entità nota e le linee guida per la sua seconda amministrazione non dispiacciono ai mercati, in particolare all’azionario. Si continua insomma a ipotizzare uno scenario di crescita, di inflazione contenuta, di banche centrali orientate a tagliare i tassi e di quadro geopolitico movimentato ma sotto controllo. I dazi, in questa narrazione, non pesano molto. Dopo tutto hanno lo stesso effetto pratico di un movimento del dollaro, che di solito, se contenuto, non mette in moto reazioni particolarmente rilevanti. No landing, insomma, oppure Goldilocks a perdita d’occhio, due scenari già nei prezzi.

La seconda narrazione non esclude la prima, ma la affianca. I mercati sono solo apparentemente tranquilli. Se si muovono relativamente poco non è perché scontano già tutto, ma, al contrario, perché non sanno ancora come prendere le misure alla nuova amministrazione.

Prendiamo la geopolitica. Visto da una certa angolazione, Trump potrebbe ripristinare il primato americano. Come Reagan provocò l’uscita di scena dell’Unione Sovietica con spese militari che Mosca non poteva uguagliare, così Trump potrebbe provocare il ridimensionamento della Cina con i dazi (che le imporrebbe anche l’Europa). Visto da un’altra angolazione, Trump sarebbe invece il ridimensionatore di un impero americano sovraesteso, quasi un nuovo Gorbaciov, anche se con esiti decisamente meno distruttivi.

Anche venendo al breve termine, ci sono questioni da chiarire. E’ vero, Biden ha cercato di isolare la Cina indebolendo la Russia in Ucraina, mentre Trump, probabilmente, vuole indebolire la Cina ripristinando un dialogo con Mosca con un accordo sull’Ucraina. Ma se la strategia è diversa, la tattica potrebbe risultare la stessa, ovvero sostenere militarmente l’Ucraina. L’obiettivo sarebbe in questo caso la trattativa (e non più la guerra a oltranza) ma il rischio di escalation rimarrebbe.

Lo stesso modus operandi, definito da Bessent come alzare il tiro per poi abbassarlo (escalate to de-escalate), lo possiamo intravvedere sui dazi. In questo caso i mercati si chiedono se scontare la prima fase (dazi, dollaro forte) o se portarsi avanti e anticipare l’esito finale (rimozione dei dazi, dollaro debole e tassi a lungo in salita). Inoltre, un conto è se la prima fase dura una notte (come i dazi del 25 per cento anticipati da Trump per Canada e Messico e poi ritornati sullo sfondo il giorno successivo dopo colloqui chiarificatori con Trudeau e la Sheinbaum). Un altro conto è se i negoziati sui dazi si prolungano per anni o decenni, come è nella tradizione delle trattative commerciali internazionali.

In fondo non è nemmeno chiaro se i dazi siano un fine in sé o un mezzo per ottenere altro. Del resto, per tenersi aperte tutte le opzioni, Trump ha nominato un assortimento di falchi e colombe sia nelle posizioni legate all’economia e al commercio sia in quelle legate alla sicurezza e alla politica estera. Così come non è chiaro se Trump voglia davvero disegnare un nuovo ordine internazionale o se, nel suo pragmatismo, si accontenti alla fine, come fu il caso con la sua prima amministrazione, di massimizzare quello che le circostanze gli offriranno.

Per il momento il resto del mondo risponde, come era previsto, svalutando e tagliando i tassi. Il taglio dei tassi, senza badare troppo all’inflazione, è positivo per la crescita globale. Le svalutazioni preventive (per ora invero limitate, come abbiamo visto) sono l’altra faccia dei tagli dei tassi ma rischiano, come nota Michael Pettis, di aggravare le tensioni, perché aumentano la competitività degli esportatori mercantilisti e vanno nella direzione opposta rispetto a quella auspicata dalla nuova amministrazione.

L’Europa, in un contesto in movimento, deve scegliere se privilegiare il rapporto con l’America e alzare dazi aggressivi contro la Cina in cambio di un trattamento di riguardo da parte di Trump (come vorrebbe la Commissione) o se cercare il più possibile di mantenere aperto il commercio con la Cina, anche a costo di nuovi dazi americani. Su questa seconda linea è il futuro cancelliere Merz, sensibile alle difficoltà dell’industria dell’auto e della chimica tedesche, che hanno in Cina sia produzione sia mercato di sbocco. Dazi americani del 10 per cento sulle auto tedesche sarebbero preferibili, in questa ottica, alla perdita della Cina, che cercherebbe di compensare la perdita dell’Europa ponendosi come concorrente insuperabile nei paesi emergenti.

In questo quadro incerto i mercati, giustamente, volano basso e non si sbilanciano su scommesse di grande respiro strategico. Hanno dalla loro una crescita americana che, anche se in rallentamento, si mantiene ancora forte, una crescita europea che, nonostante le difficoltà tedesche, dovrebbe mantenere segno positivo e una Cina che, l’anno prossimo, contrasterà i dazi di Trump con politiche di stimolo.

Sull’azionario è ancora il momento dei settori tradizionali. La grande tecnologia, pur mostrando qualche affanno nei telefoni e nei Pc, continua però a crescere e a investire massicciamente sull’intelligenza artificiale, senza per ora compromettere i suoi conti. Una parte crescente di Silicon Valley, inoltre, si mostra pronta a un dialogo con la nuova amministrazione e cerca così di prevenire azioni antitrust.

L’inflazione manda bollicine in superficie, in particolare sul fronte delle retribuzioni, che in America crescono a una velocità nominale totale del 6 per cento. La crescita in leggero rallentamento dovrebbe comunque moderare la corsa dei prezzi. Il taglio di dicembre da parte della Fed non va dato per scontato. Se ci sarà, ci sarà poi una pausa, almeno fino a marzo.

Anche la Fed naviga a vista e vola basso.

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