rosso e nero
a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

L’ORA DEI DUBBI

Mercati meno convinti, ma la Fed taglierà comunque

Mentre in Europa tutto è pronto per l’inizio dei tagli dei tassi fra due mesi, in America affiorano dubbi sullo scenario di soft landing che ha guidato il rialzo azionario dell’ultimo anno e mezzo.

Mentre in Europa tutto è pronto per l’inizio dei tagli dei tassi fra due mesi, in America affiorano dubbi sullo scenario di soft landing che ha guidato il rialzo azionario dell’ultimo anno e mezzo.


I dubbi nascono dall’inflazione, più resistente del previsto, e dalla crescita, che si mantiene su un livello superiore a quello potenziale. L’idea dell’inflationary boom intimidisce i bond lunghi, soprattutto se si accompagna all’impressione che la Fed, come nel 2021, abbia deciso di fare finta di niente rispetto all’inflazione.

A questo si aggiungono segnali di tensione sul fronte di alcune (non tutte) tra le materie prime più importanti, come il petrolio e il rame (ma non il minerale di ferro), che esprimono lo squilibrio tra una domanda globale forte e un’offerta che non cresce abbastanza.

A complicare ulteriormente il quadro, lo scenario geopolitico appare ogni giorno meno rassicurante e i due conflitti regionali dell’Ucraina e del Levante corrono seri rischi di intensificazione e di allargamento.

La possibilità che si stia dispiegando uno scenario di no landing, e non di soft landing, richiede al mercato una revisione di strategia. Il no landing comporta infatti un allargamento del rialzo azionario ai titoli ciclici tradizionali, l’inclusione nei portafogli di materie prime industriali e di oro e la riduzione delle posizioni sui bond lunghi.

Le cose non sono però così semplici, perché il fronte del no landing si divide a sua volta in due correnti. La prima ipotizza che l’aereo dell’economia si stabilizzi per tutto l’orizzonte prevedibile su un’altitudine e una velocità elevate e che tutto vada per il meglio con l’inflazione al 3, invece che al 2, come solo prezzo da pagare.

La seconda corrente vede invece l’inflationary boom come canto del cigno di questo ciclo espansivo concitato e irregolare. Presto o tardi, secondo questa visione, la ripresa dei tassi a lungo termine porterà a una contrazione dei multipli azionari e, nel caso peggiore, a un vistoso rallentamento della crescita e degli utili, con una possibile recessione tra la fine di quest’anno e l’inizio del prossimo.

La Fed entra a gamba tesa in queste discussioni con un Powell che in apparenza ondeggia (colomba dopo l’ultimo Fomc, quasi falco venerdì scorso, di nuovo colomba nell’incontro di ieri a Stanford) ma che nella sostanza ribadisce un messaggio abbastanza semplice. Il rialzo dell’inflazione lo vediamo anche noi, dice, ma non ci preoccupa. Al massimo ritarderemo di poco l’inizio del ciclo di riduzione dei tassi, che abbiamo promesso e che avvieremo comunque in tempi brevi.

Il messaggio della Fed da una parte rassicura i mercati e stende una rete di protezione per l’azionario, togliendo di mezzo le ipotesi di crash che gli short stavano cominciando ad accarezzare e provando a diffondere. Dall’altra alimenta ancora di più il dibattito.

Se la Fed continua senza esitazioni per la sua strada (magari per pressioni politiche) e sbaglia analisi come nel 2021, dicono alcuni, ci aspetta fra qualche tempo un nuovo 2022 con una Fed costretta a ritornare sui suoi passi e ad alzare di nuovo i tassi.

In alternativa, dicono altri, la Fed vede un rallentamento dell’economia all’orizzonte e cerca di prevenirlo o contenerlo tagliando i tassi mentre ancora splende il sole.

Powell, a dire il vero, cerca di proporre una terza interpretazione di quello che la Fed vede e si appresta a fare. Questa interpretazione, che da alcune settimane propone in maniera diffusa e insistente, è che il quadro di fondo è solido e non preoccupante perché alla forte domanda di prodotti e servizi da parte di imprese e famiglie fa fronte un allargamento dell’offerta. Le scelte dell’amministrazione Biden sul petrolio (la produzione americana è al massimo storico e continua a crescere) e sull’immigrazione (7 milioni di immigrati tra 2023 e 2024, secondo l’autorevole e bipartisan Congressional Budget Office) permettono all’economia di crescere bene senza troppa inflazione e con un mercato del lavoro vivace ma non troppo teso.

Questa terza interpretazione, più strutturale delle altre due, sembra piuttosto convincente e ci induce a mantenere una posizione costruttiva sull’azionario allargato (non solo la tecnologia di punta, quindi) e non particolarmente preoccupata per i bond lunghi.
Biden e Trump, come abbiamo già sottolineato altre volte, sono presidenti che vogliono sostenere sia la domanda sia l’offerta, che non si preoccupano dei notevoli disavanzi pubblici ma che in compenso spingono al massimo i fattori di produzione, in particolare le fonti di energia (tutte, non solo le rinnovabili). Sono protezionisti, certo, ma in una prima fase il protezionismo porta reindustrializzazione e solo più tardi porta inefficienza. Trump vuole arginare (non cancellare) l’immigrazione, ma, se eletto, verrà di nuovo ostacolato su questa strada dal potere giudiziario e dagli stati democratici.

Per l’azionario vedere spinte insieme domanda e offerta è il migliore dei mondi possibili, per l’obbligazionario è un mondo vivibile, soprattutto se i tassi reali rimangono sopra zero. Mantenere in equilibrio tra loro le spinte alla domanda e quelle all’offerta richiede alla Fed molta abilità, ma non è un esercizio impossibile. Tutto questo non giustifica bolle azionarie, ma porta a ridimensionare, al netto di possibili complicazioni geopolitiche, gli scenari preoccupanti che in questi giorni alcune componenti del mercato hanno ripreso ad evocare.

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