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a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

CAUTI, MA INVESTITI

I rischi delle guerre, la certezza delle politiche espansive

Può darsi che una eventuale decisione americana di entrare in prima persona nel conflitto Israele-Iran ne acceleri la conclusione. È, in fondo, lo scenario più probabile. Quanto meno, è lo scenario adottato dai mercati, che finora non si sono troppo scomposti nell’attesa delle decisioni di Trump.

Può darsi che una eventuale decisione americana di entrare in prima persona nel conflitto Israele-Iran ne acceleri la conclusione. È, in fondo, lo scenario più probabile. Quanto meno, è lo scenario adottato dai mercati, che finora non si sono troppo scomposti nell’attesa delle decisioni di Trump.

È una reazione, quella dei mercati, profondamente diversa rispetto a quella del 2002-2003. Ricordiamo che l’Iraq era stato individuato immediatamente, dall’amministrazione Bush, come coinvolto nell’attacco all’America culminato nell’11 settembre. Già dal 2001, dunque, era chiaro che l’America si sarebbe mossa in qualche modo contro Baghdad. A metà 2002 era diventato di dominio pubblico che l’America stava effettivamente iniziando a organizzare un’operazione militare su scala così vasta da richiedere molti mesi di preparazione.

I mercati, nel settembre 2001, erano già da un anno nella fase di sgonfiamento della bolla legata a Internet. Il bear market, guardando ai fondamentali delle società tecnologiche, avrebbe potuto fermarsi lì, ma proseguì senza interruzioni fino al marzo 2003 perché l’attesa della guerra gelò qualsiasi velleità rialzista e i potenziali compratori preferirono restare alla finestra. A differenza dell’Iran di oggi, che viene generalmente presentato come piuttosto debole, l’Iraq di allora era vissuto come militarmente molto temibile ed era diffusa l’incertezza sull’esito della guerra.

I timori di allora, visti oggi, furono decisamente eccessivi. L’esercito di Saddam si sciolse come neve al sole dopo poche ore di conflitto e le borse, su livelli molto depressi, iniziarono immediatamente il grande rialzo che sarebbe durato fino alla crisi finanziaria del 2008. I timori di allora, in ogni caso, fanno capire per contrasto come sia rilassato l’atteggiamento dei mercati oggi, in un contesto che non può certo essere definito di sottovalutazione come quello del marzo 2003.

Ci sono certamente alcune spiegazioni per questa differenza. Una è che l’America non si è ancora impegnata a proseguire il suo eventuale intervento fino al regime change e al successivo nation building. L’America potrebbe insomma limitarsi a neutralizzare le installazioni atomiche e ritirarsi. Questo richiederebbe una sorta di accordo con il regime iraniano, che si impegnerebbe a incassare il colpo senza rispondere attaccando le basi americane nel Golfo. Possibile ma improbabile.

Un’altra spiegazione è che il Taco visto sulle tariffe verrebbe replicato con un Taco sulla guerra (Taco è l’idea che Trump, una volta lanciato il sasso, si tira rapidamente indietro). Trump, si dice, è troppo attento al prezzo del petrolio, all’inflazione e alla borsa per prolungare un conflitto più dello strettamente necessario. Vero, anche se proprio il lavoro fatto fin qui da Trump per tenere basso il greggio e abbondante la sua offerta aiuterebbe a evitare strappi politicamente costosi paragonabili a quelli del 2022.

C’è poi un’altra dimensione che è poco presente nel dibattito corrente, anche se certamente lo è nella testa di Trump. Come reagiranno Russia e Cina alla perdita dell’Iran? La Russia, come si comincia a sentire, alzerà molto il tiro sull’Ucraina nel caso i negoziati in corso non producano un esito per lei soddisfacente. La Cina, che aveva inaugurato un mese fa una ferrovia che la collega all’Iran e che doveva nelle intenzioni rendere sicure le forniture di petrolio iraniano, subirà un duro colpo nella sua strategia di sfuggire all’assedio americano nell’Indopacifico sfondando internamente in Eurasia. Che farà allora la Cina? Sarà tentata di rompere l’assedio attaccando Taiwan?

Come nota Michael Every, i mercati si sono per mesi occupati solo di dazi mentre la complessità dello scontro geopolitico saliva giorno dopo giorno. Oggi si accorgono della questione iraniana, ma continuano a non vedere tutto quello che le sta dietro.

C’è a questo punto un’asimmetria tra il potenziale di rialzo nel caso di una soluzione gradita ai mercati della questione iraniana e il potenziale di ribasso nel caso questa si prolunghi e si complichi.

Detto questo, rimangono ragioni profonde per rimanere investiti. La ragione di breve termine è che, pur con tutte le considerazioni svolte fin qui, un esito gradito ai mercati della questione iraniana in tempi stretti rimane lo scenario più probabile. In questo caso basta evitare, nei prossimi giorni, di esporsi con operazioni a leva (tanto al rialzo quanto al ribasso) e avere un minimo di pazienza.

La ragione di medio termine, più convincente in quanto strutturale, è la natura espansiva delle politiche monetarie e fiscali, che si estende a perdita d’occhio in tutto il mondo. L’unica eccezione è quella della politica monetaria americana, definita ieri da Powell moderatamente restrittiva. Si tratta però di un’eccezione che ha i mesi contati, i dieci mesi che vedranno ancora Powell alla guida della Fed.

Ma potremmo anche dire che ha le settimane contate. Se l’inflazione americana, come emerge dalle previsioni ufficiali che abbiamo visto nel Fomc di ieri sera, salirà presto al 3 per cento e lì si manterrà per qualche mese, la politica monetaria della Fed, a tassi nominali stabili, vedrà un’erosione dei tassi reali e diverrà quindi, anch’essa, moderatamente espansiva. Terminata l’ondata di inflazione da dazi all’inizio dell’anno prossimo, la nuova Fed a nomina trumpiana taglierà i tassi ancora più di quanto sia nel frattempo ridiscesa l’inflazione. Tutto il mondo, a quel punto, sarà sintonizzato su una linea aggressivamente espansiva.

Gli investitori vedranno insomma, nei prossimi mesi, una forte volatilità legata a vicende geopolitiche serie e difficili da prevedere. Avranno però, in compenso, la certezza di politiche strutturalmente favorevoli ai corsi azionari (e non necessariamente dannose per i corsi obbligazionari).

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