La settimana scorsa abbiamo provato a cercare una logica nella visione geopolitica della nuova amministrazione americana. Ora proveremo a dare una logica alla sua linea economica, guardando anche alle modalità di implementazione e alle conseguenze per il resto del mondo.
La settimana scorsa abbiamo provato a cercare una logica nella visione geopolitica della nuova amministrazione americana. Ora proveremo a dare una logica alla sua linea economica, guardando anche alle modalità di implementazione e alle conseguenze per il resto del mondo.
Si sarà notato come l’abituale attenzione ossessiva dei mercati per la Fed (e anche per la Bce) sia stata sostituita con un’attenzione per le politiche fiscali e commerciali. La stessa Fed, da alcune settimane, sembra faccia di tutto per non essere notata e tranne un paio di governatori che si espongono di più perché sono candidati alla successione di Powell, tutti, con Powell in prima fila, si mantengono defilati e silenziosi. La Fed tornerà a farsi sentire più avanti, quando sarà più chiara la linea d’azione dell’amministrazione e del Congresso, ma per ora prevale la linea del basso profilo.
Lo stesso Congresso sta evidentemente giocando di rimessa. La camera bassa ha presentato una proposta di budget che include tutti i sogni nel cassetto della componente repubblicana (anche se con molti meno tagli di imposte del previsto) ma si sa che sarà fra qualche mese il Senato, come d’abitudine, a riscrivere completamente il bilancio e ad approvarlo. E il Senato terrà ovviamente conto di quello che nel frattempo avrà fatto e annunciato l’amministrazione.
Anche in Europa gli occhi sono puntati sul governo tedesco e sulla sua capacità di promuovere una politica fiscale espansiva, o direttamente o attraverso Bruxelles. La Bce ha un suo orientamento, anch’esso pro crescita, ma la cosa è nota ai mercati da tempo e non li muove.
Che cosa vuole, dunque, l’amministrazione Trump? Vuole fare le cose nel modo classico, in un certo senso. Vuole fare pulizia nel suo primo anno, quando può ancora dare la colpa di quello che non funziona all’amministrazione precedente, per poi raccogliere i primi frutti alle elezioni di mid-term e per arrivare al 2028 con la possibilità di mostrare successi sui fronti della crescita, dell’occupazione e dell’inflazione. Con l’aggiunta, che non si vedeva dai tempi di Clinton, di qualche successo sul fronte del contenimento del disavanzo pubblico.
Si accetta quindi un rallentamento della crescita, una stabilizzazione e forse un consolidamento del mercato azionario, come prezzo da pagare per il contenimento dell’inflazione. Se si vogliono riportare sotto controllo i flussi migratori bisogna crescere di meno, altrimenti si alimenta l’inflazione salariale. Anche il licenziamento di 300mila dipendenti federali, oltre ad avere una logica politica (e partitica, perché sono in larga maggioranza elettori democratici), ha una logica economica di contenimento dell’inflazione salariale. Come nota Torsten Slok, 300mila possono sembrare pochi su un mercato del lavoro di 160 milioni, ma per ogni statale ci sono due consulenti esterni. In totale, le famiglie che potrebbero avere paura di perdere la fonte di reddito, ovvero quelle che ruotano intorno al sistema federale, sono 9 milioni. La gran parte di loro manterrà l’impiego, ma poiché non si sa dove andrà a colpire la scure di Doge, tutti saranno per qualche mese molto prudenti nelle loro spese. E gli effetti cominciano a manifestarsi nei dati sui consumi, che rappresentano i due terzi del Pil, e sui servizi.
Queste misure sono però da inserire in un disegno più ampio che punta a un riequilibrio globale dei flussi commerciali e delle politiche fiscali e monetarie. Da una parte l’America dimagrisce, dall’altra spinge il resto del mondo a uscire dalla dieta fiscale che si è imposto dalla Grande Crisi Finanziaria del 2008-09. Minacciando il più rumorosamente possibile dazi per tutti, l’America fornisce ai governi europei e cinese l’argomento definitivo per stimolare le loro economie e abbandonare l’austerità. L’abbandono avviene in un clima di ostilità verso l’America (guardate che cosa ci costringe a fare) ma è in realtà una scelta che fa comodo ai governi di Europa e Cina da una parte e che, dall’altra, viene compiuta anche come atto di sottomissione a quell’America cui ci si dichiara ostili.
Spendere meno in America e fare spendere di più al resto del mondo riduce il differenziale dei tassi, rende meno attraenti gli asset reali americani rispetto a quelli degli altri paesi e porta dunque, senza bisogno di accordi a tavolino in stile Plaza, a un tendenziale indebolimento del dollaro, che a sua volta riduce gli squilibri commerciali tra America e resto del mondo, con il vantaggio aggiuntivo di invertire la tendenza alla deindustrializzazione dell’America.
Come si vede, tutto è per aria, ma tutto va nella direzione che i mercati, almeno a parole, invocano da tempo immemorabile (l’America deve spendere meno, gli altri devono spendere di più). Non c’è poi bisogno che Trump imponga davvero dazi generalizzati, basta che la sua minaccia di farlo sia sufficientemente credibile. Lo stesso, sul piano geopolitico, vale per la minaccia di abbandonare del tutto Europa e Ucraina. Non occorre che si concretizzi, basta che produca la reazione voluta.
Dopo alcuni mesi di moderata pressione, all’economia americana arriveranno in soccorso gli effetti positivi della deregulation e dei tassi d’interesse più bassi di quanto non si era temuto. Sui tassi la partita è però molto aperta, perché l’inflazione è ancora troppo vivace.
Non andate contro la Fed, si è sempre detto nei mercati. Non mettetevi dalla parte opposta di quella della banca centrale. Ora questa massima va aggiornata. Non combattete il Tesoro. Non mettetevi contro le politiche fiscali restrittive di Bessent e quelle espansive del futuro governo tedesco. Sovrappesare le borse del mondo e sottopesare la borsa americana, almeno per quest’anno. Sottopesare i bond europei lunghi e sovrappesare (con molta prudenza, perché c’è ancora l’inflazione) i bond lunghi americani. Rispetto a questi ultimi, in ogni caso, meglio comprare a leva bond a due anni piuttosto che andare sulle scadenze lunghe.
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.