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a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

DISLOCAZIONI

Come cambia la geografia economica del mondo

In questi mesi si è parlato molto di come la guerra calda in Ucraina e la guerra fredda con la Cina stanno trasformando il rapporto tra occidente e oriente del mondo. Si è visto in particolare come, in vista dello scontro strategico con la Cina, l’America ha riportato a casa l’Europa inducendola a recidere i legami con la Russia.

In questi mesi si è parlato molto di come la guerra calda in Ucraina e la guerra fredda con la Cina stanno trasformando il rapporto tra occidente e oriente del mondo. Si è visto in particolare come, in vista dello scontro strategico con la Cina, l’America ha riportato a casa l’Europa inducendola a recidere i legami con la Russia.

Si è visto anche come questa politica ha spinto Cina e Russia verso un’integrazione strategica delle loro economie. Le prese di distanza cinesi rispetto alla Russia sulla questione ucraina (non importa se di facciata o reali) non devono nascondere l’evidenza di rapporti sempre più stretti tra i due paesi. Non sono solo il petrolio e il gas russi a essere dirottati dall’Europa alla Cina, ma anche il grano, che con il nuovo grande centro dedicato di smistamento sul lago Bajkal è pronto a essere distribuito in tutta l’Asia meridionale.

Il nuovo blocco orientale è a cerchi concentrici. Intorno al nucleo centrale russo-cinese c’è un cerchio più largo che include l’Iran, la Corea del Nord, il Myanmar e l’Asia centrale ex sovietica. Un cerchio più esterno include paesi come India, il Pakistan e la Turchia. Questi tre paesi perseguono linee di azione politica indipendenti e hanno rapporti strategici stretti anche con l’occidente, ma risentono in misura crescente della forza di attrazione economica del blocco russo-cinese.

L’integrazione economica e commerciale del blocco asiatico comincia ad allargarsi all’aspetto valutario. Qui non bisogna fare l’errore di pensare a un rapido declino del ruolo dominante del dollaro negli scambi internazionali. Il dollaro resterà dominante ancora a lungo, ma è anche vero che ormai non passa giorno senza che venga annunciato un accordo commerciale all’interno dell’area orientale (allargata a un cerchio ancora più largo che include i paesi arabi) in cui gli scambi verranno regolati nelle valute locali e non più in dollari.

All’integrazione interna dell’Asia corrisponde il progressivo raffreddamento dei rapporti economici e finanziari tra Cina e occidente. La gran parte degli investimenti produttivi occidentali in Cina compiuti negli ultimi trent’anni è ancora in Cina, ma si contano sulle dita di una mano i nuovi grandi investimenti occidentali negli ultimi tre anni. Solo la chimica e l’auto tedesca continuano ad allargare la loro presenza, che rimane comunque orientata al mercato interno cinese e non alla riesportazione.

Dal canto suo la Cina ha cessato di investire in Treasury americani il surplus commerciale che ha ripreso a creare. Il sequestro delle riserve valutarie russe detenute dai paesi occidentali preoccupa la Cina, che mantiene in Treasury un trilione di dollari sui quali, in caso di conflitto per Taiwan, non potrà più contare.

Meno indagato ma altrettanto interessante è il cambiamento della geografia economica all’interno del blocco occidentale in via di ricompattamento. Qui si notano riallocazioni di risorse produttive lungo due direttrici.

La prima, di cui cominciano a vedersi indicazioni significative, è il trasferimento di quello che resta dell’industria pesante europea verso gli Stati Uniti, che offrono un’energia molto più a buon mercato rispetto a quella europea e soprattutto un’energia più sicura. Lo spostamento centripeto verso il centro del blocco occidentale ha anche un senso geopolitico. Se nelle fasi storiche percepite come relativamente tranquille si vanno a esplorare le periferie del mondo, in quelle di incertezza crescente si vanno a cercare sicurezza e stabilità al centro.

La seconda direttrice è interna agli Stati Uniti e sta prendendo velocità ogni giorno che passa. Parliamo del trasferimento di industrie e servizi dalle aree ad alto costo e alta tassazione (il nord-est, Chicago e la California) verso quella sorta di Cina interna dell’occidente che sta diventando il Texas (per il manifatturiero), a cui si affianca sempre di più la Florida (per i servizi).

L’accelerazione di questo movimento è dovuta alla forza del circolo vizioso che vede le aree in regresso perdere base imponibile (inducendole ad alzare ancora di più le tasse su chi rimane) e a quella del circolo virtuoso delle aree a bassa fiscalità, che vedono crescere la loro base imponibile con l’arrivo di nuove imprese e possono così ridurre ulteriormente la pressione fiscale e migliorare le loro infrastrutture. Elon Musk che diventa texano e i fondi hedge che si trasferiscono a Miami sono solo le avanguardie di un movimento che si profila inarrestabile.

La recessione del 2023 accelererà questi processi di ristrutturazione. Il portafoglio degli investitori finanziari, che negli anni della globalizzazione si era avventurato verso i paesi emergenti e si era poi spinto verso i paesi di frontiera seguirà ora il percorso inverso.

Venendo al breve termine, la discreta tenuta dell’economia e la forza del mercato del lavoro, che in tempi normali sarebbero per i mercati finanziari ragioni di conforto, appaiono in questo momento in una luce sfavorevole, perché inducono le banche centrali a premere ancora di più sul freno. Questa azione restrittiva non si tradurrà necessariamente in ulteriori rialzi dei tassi rispetto a quelli preannunciati, bensì nel rinvio del momento in cui la politica monetaria cambierà di segno e verrà allentata. Rispetto alla strana euforia di agosto il clima dei mercati è oggi più allineato con i fondamentali.

Rimane comunque valida l’indicazione di alleggerire nelle fasi di recupero. Queste occasioni continueranno a ripresentarsi, perché il mercato è attraversato da ondate periodiche di profondo pessimismo, ed è quindi esposto alla possibilità di recuperi improvvisi.

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