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a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

QUANDO VENDERE

La possibilità di una correzione estiva

Vendere è più difficile che comprare. L’acquisto di azioni o bond, per un investitore individuale, è legato spesso a circostanze che non hanno a che vedere con il livello dei mercati. Si investe quando si eredita una somma, quando si vende una casa o un’azienda, quando una somma risparmiata negli anni ha raggiunto una certa consistenza. Quando poi si è già costituito da tempo un portafoglio, si acquista spesso in borsa quando scade un bond. Il bond naturalmente poteva essere venduto anche prima della scadenza, magari per comprare azioni a un prezzo molto più basso di quello corrente, ma l’inerzia spinge comunque ad aspettare la fine naturale del bond.

Vendere è più difficile che comprare. L’acquisto di azioni o bond, per un investitore individuale, è legato spesso a circostanze che non hanno a che vedere con il livello dei mercati. Si investe quando si eredita una somma, quando si vende una casa o un’azienda, quando una somma risparmiata negli anni ha raggiunto una certa consistenza. Quando poi si è già costituito da tempo un portafoglio, si acquista spesso in borsa quando scade un bond. Il bond naturalmente poteva essere venduto anche prima della scadenza, magari per comprare azioni a un prezzo molto più basso di quello corrente, ma l’inerzia spinge comunque ad aspettare la fine naturale del bond.

Qualsiasi momento è buono per comprare. In qualsiasi momento dato è sempre disponibile una narrazione rialzista che giustifica l’acquisto. Anche comprare sul massimo di un ciclo non è difficile, è anzi più facile perché tutti sono ottimisti. Insomma, nella pratica, comprare non richiede la sofferenza di studiare, ragionare e prevedere. Si entra in un fiume e ci si affida alla corrente.

Vendere è molto più complicato e richiede uno sforzo intellettuale ed emotivo particolare. Quando vendere? Quanto vendere? Perché vendere?

Vendere è tirare un bilancio e darsi un voto. Comporta un confronto con sé stessi da cui discende un livello di autostima. E ci espone al giudizio non solo nel momento in cui decidiamo di vendere, ma per il resto dei nostri giorni. La storia dei soci fondatori di Apple o dei compratori della prima ora di bitcoin è costellata di esempi da leggenda di venditori impazienti. Quel bitcoin venduto per una pizza (storia vera) oggi potrebbe comprare una bella automobile. Quel socio fondatore di un’impresa tecnologica che si sentiva probabilmente intelligentissimo per avere venduto la sua quota decuplicando il capitale iniziale ha forse avuto la vita rovinata dal constatare che, se non avesse venduto, sarebbe oggi miliardario. E non avrebbe il giornalista che lo va a cercare proprio per chiedergli sadicamente come ci si sente ad avere buttato via l’occasione della vita.

E così spesso si pasticcia con euristiche senza molto valore. C’è chi vende non appena ha un profitto del 10 per cento. C’è chi vende non appena ha una perdita del 10 per cento. C’è chi non vende mai perché l’azionario nel tempo sale sempre. C’è chi vende perché non ne può più di perdere.

C’è poi chi, quando si decide, vende tutto anche se è solo per giocarsi un piccolo ribasso e chi invece vende quote insignificanti anche se sente avvicinarsi una grande recessione.

E poi perché vendere ora e non domani o fra un anno?

La questione del vendere diventa più complicata in un momento come l’attuale di borse ai massimi di tutti i tempi e di multipli storicamente elevati (giustificati finora con i tassi bassi). Ma questo è anche un momento di grande ripresa (anche se non sincronizzata), di liquidità straordinariamente abbondante e di profitti sorprendentemente positivi.

Fino a ieri la narrazione era facile. Vaccini, riapertura, politiche espansive, tassi a zero per molti anni a venire. Ora si cominciano a sentire narrazioni più articolate e ci si pongono delle domande che prima non venivano in mente.

Quanto durerà l’effetto delle politiche fiscali superespansive? C’è chi parla di due anni e c’è chi dice due trimestri. Che cosa succederà quando le politiche fiscali diverranno meno espansive? Che succederà se l’inflazione non sarà solo una fiammata di pochi mesi?

Come reagiranno gli utili finali delle società una volta che queste avranno dovuto assorbire l’aumento delle materie prime, quello delle retribuzioni, quello degli interessi da pagare sul debito, quello delle tasse e il costo della reregulation?

Il fatto che ci si cominci a interrogare su queste cose è positivo e segna il passaggio dal rialzo lineare a una fase più matura ed equilibrata. Oggi la grande ripresa è in buona misura già nei prezzi ed è ora di iniziare a prezzarne anche gli effetti collaterali.

Comincia quindi ad avvicinarsi il momento in cui, invece di limitarci a stare passivamente e profittevolmente seduti sui nostri portafogli, ci si potrà cominciare a tormentare con le domande sul quando e quanto vendere.

Il consenso parla di borse che chiuderanno l’anno più in alto di dove sono oggi, ma non di molto. Ipotizzando anche un rialzo ulteriore del 10 per cento (che richiederebbe misure di controllo di curva in America) è difficile pensare a un rialzo regolare e lineare. Ci sono infatti due ostacoli da affrontare. Il primo è il superamento della soglia del 2 per cento sul decennale americano, prevedibile per questa estate. Il secondo è il tapering, ovvero il processo di riduzione degli acquisti di titoli da parte della Fed, che è però argomento per l’inizio dell’anno prossimo. L’aumento degli oneri per le imprese, in particolare le tasse, avrà conseguenze ancora più avanti.

In pratica avrà senso cominciare fra qualche settimana ad alleggerire a patto di essere pronti a ricomprare quando l’ulteriore rialzo dei tassi lunghi americani avrà prodotto una correzione estiva. Chi non si sente abbastanza agile da giocarsi la correzione potrà anche restare fermo e aspettare il recupero e i nuovi massimi nella parte finale dell’anno.

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