Seven Days In May è un film del 1964 su un tentato colpo di stato organizzato dai vertici del Pentagono contro il presidente degli Stati Uniti, accusato di essere un pacifista che svende l’America ai russi. Gli attori sono grandi stelle come Burt Lancaster, Kirk Douglas e Ava Gardner. La sceneggiatura è di quel genio di Rod Serling, l’ideatore di Twilight Zone (Ai confini della realtà). Un grande film, dunque, che il presidente Kennedy, ucciso l’anno prima a Dallas, aveva incoraggiato e aiutato attivamente durante la progettazione e la lavorazione. Kennedy sapeva benissimo che il deep state, soprattutto dopo la Baia dei Porci e la crisi dei missili, lavorava contro di lui e aveva bisogno di comunicarlo al pubblico in tutti i modi possibili per isolare i suoi nemici.
Seven Days In May è un film del 1964 su un tentato colpo di stato organizzato dai vertici del Pentagono contro il presidente degli Stati Uniti, accusato di essere un pacifista che svende l’America ai russi. Gli attori sono grandi stelle come Burt Lancaster, Kirk Douglas e Ava Gardner. La sceneggiatura è di quel genio di Rod Serling, l’ideatore di Twilight Zone (Ai confini della realtà). Un grande film, dunque, che il presidente Kennedy, ucciso l’anno prima a Dallas, aveva incoraggiato e aiutato attivamente durante la progettazione e la lavorazione. Kennedy sapeva benissimo che il deep state, soprattutto dopo la Baia dei Porci e la crisi dei missili, lavorava contro di lui e aveva bisogno di comunicarlo al pubblico in tutti i modi possibili per isolare i suoi nemici.
Nei giorni scorsi Larry Summers, in un attacco durissimo a William Dudley, ha paragonato la proposta di quest’ultimo di usare la Federal Reserve per impedire la rielezione di Trump al tentativo golpista di Seven Days In May. La vicenda è di grande interesse non solo perché coinvolge due personaggi di altissimo profilo (Dudley è stato il numero tre della Fed fino all’anno scorso e Summers, già segretario al Tesoro con Clinton, è sempre stato nella rosa ristretta dei possibili candidati a dirigere la Fed) ma soprattutto perché si tratta di due esponenti di primo piano dell’establishment economico democratico.
Dudley, nei giorni scorsi, era intervenuto sulla questione dei prossimi tagli dei tassi per dire che la Fed deve smettere di rimediare ai problemi che la guerra commerciale di Trump crea all’economia globale e deve al contrario porsi l’obiettivo di impedire che Trump, con un secondo mandato, faccia altri danni. Come? Dichiarando pubblicamente che le politiche di Trump sono sbagliate e che non verrà mosso un dito per attenuarne l’impatto. In pratica, niente tagli dei tassi.
Lo scontro tra Dudley e Summers (che ha definito quella di Dudley la peggiore affermazione di un funzionario pubblico degli ultimi decenni) ha tre meriti. Il primo è di rivelare al grande pubblico il grado di politicizzazione della Fed, in parte voluto dal legislatore (tra i nove membri del board della Fed di New York, che sovraintende alle grandi banche con proiezione nazionale e internazionale, ci sono un sindacalista, una rappresentante delle Ong e una dei comitati di quartiere) e in parte accentuatosi negli ultimi anni. Il secondo è che, proprio perché le prossime mosse della banca centrale saranno osservate anche come mosse politiche, possiamo supporre che la Fed, se vorrà conservare un certo grado di indipendenza, dovrà cercare di apparire in tutti i modi “oggettiva” ed equilibrata nelle sue decisioni e per farlo taglierà i tassi di 25 punti alla volta (non 50, per non apparire trumpiana, e non zero, per non apparire antitrumpiana) e per un numero di volte proporzionato al deteriorarsi effettivo del quadro globale. Il terzo merito è di accelerare lo spostamento di peso relativo dal monetario al fiscale e di mostrare come alla fine, tra le due politiche, ci sia un intreccio, che nei prossimi anni diventerà sempre più stretto, e non una separazione.
Una Fed che taglia i tassi senza mostrare troppo affanno, paura o ostilità sarà un forte sostegno per i mercati di qui a fine anno. Lo stesso discorso vale naturalmente anche per le altre banche centrali, tra cui la Bce. Il fatto che questo sostegno sia già nei prezzi non gli impedirà di agire.
Altre due considerazioni rendono se non altro possibile guardare ai prossimi mesi in modo costruttivo.
La prima è su Brexit. La mossa di Johnson di sospendere l’attività del parlamento per qualche settimana può essere ovviamente discussa sul piano dell’opportunità, ma facilita un accordo all’ultimo minuto con Bruxelles che eviti una rottura traumatica. La Commissione europea aveva infatti sperato fino all’ultimo in una iniziativa parlamentare contro il no deal. Ora che questo è ormai praticamente impossibile, si riapre lo spazio per un negoziato vero e per un compromesso, che leverebbe un grosso ostacolo sul cammino dei mercati.
L’altra considerazione è sulla guerra commerciale. Siamo di nuovo entrati, probabilmente, in una fase di tregua. Ancora più importante, si stanno calcolando i danni che la guerra ha provocato finora e si sta scoprendo che sono molto meno gravi di quanto si poteva immaginare. A fine anno i dazi medi americani sui prodotti cinesi importati saranno del 24 per cento, esattamente come i dazi cinesi sui prodotti americani. Dazi alti? Forse, ma molto più bassi di quelli in uso nei decenni passati tra Asia e paesi occidentali. Come poi nota Jawad Mian, l’interscambio tra America e Cina è solo il 3 per cento di quello globale, che ha comunque continuato a crescere del 3 per cento nel 2018 e del 2.3 quest’anno.
Intanto la dipendenza della Cina dalle esportazioni (a differenza dell’Europa) continua a calare. L’export cinese era il 35 per cento del Pil nel 2006 ed è oggi del 18 e viene riorientato velocemente, come sbocco, dagli Stati Uniti al resto del mondo, al punto che la crescita di quest’ultimo ha più che compensato la contrazione delle esportazioni verso l’America.
C’è poi un altro fattore importante. Si continua a parlare di un mondo a corto di dollari e del rischio che questo soffochi scambi e crescita, soprattutto se Trump riuscirà davvero a ridurre il disavanzo commerciale americano. A guardare i numeri, tuttavia, si vede che il disavanzo commerciale americano è quest’anno dell’8 per cento più alto. È evidente che il differenziale di crescita tra gli Stati Uniti e gli altri paesi comporta una forte propensione a importare dal resto del mondo e, di conseguenza, a reflazionarlo.
In conclusione, se da una parte ci avviciniamo alla stagione autunnale delle grandi correzioni (se non dei crash), possiamo non irragionevolmente supporre che queste correzioni non saranno particolarmente profonde, anche perché il mercato non appare, nella sua parte speculativa, sbilanciato in senso rialzista. Su queste correzioni, se ci saranno, si potrà comprare qualcosa. Il tempo passa e ci avviciniamo a tempi più difficili, ma siamo ancora in tempo per vedere un altro ritorno verso i massimi nei prossimi mesi.
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist del Gruppo e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.