rosso e nero
a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

AMERICA VS EUROPA

Tutto bene, quindi meno tagli dei tassi

Dopo il dato americano sul Pil del quarto trimestre, che mostra più crescita e meno inflazione del previsto, sono altrettanto legittime due domande in contrasto tra loro.

Dopo il dato americano sul Pil del quarto trimestre, che mostra più crescita e meno inflazione del previsto, sono altrettanto legittime due domande in contrasto tra loro.

Perché mai, con una crescita così forte (3.3 per cento annualizzato, dopo il 4.9 del secondo trimestre), la Fed dovrebbe avere fretta di abbassare i tassi in misura significativa quando c’è ancora la possibilità che l’inflazione risalga (in modo temporaneo in questo primo trimestre, in modo più strutturale l’anno prossimo)?

Perché mai, con un’inflazione ritornata al 2 per cento, la Fed non si affretta ad abbassare drasticamente i tassi prima che gli attuali tassi reali elevati si traducano in un’improvvisa recessione?

Si noterà che le due domande si elidono tra loro. Se dunque il contesto è ottimale, perché la Fed dovrebbe cambiare rotta rispetto a quella stabilita a dicembre che prevede solo tre tagli nel corso del 2024? E perché il mercato continua a ipotizzare una rotta diversa, con molti più tagli (si era arrivati a sette, ora sono sei, comunque il doppio di quelli indicati dalla Fed)?

Vediamo i due argomenti principali portati da chi sostiene che la Fed taglierà aggressivamente.

Il primo è che le elezioni di novembre indurranno la Fed ad adottare una politica espansiva. C’è del vero in questo argomento. Il mondo è cambiato da quando si diceva che l’imminenza delle elezioni paralizzava le banche centrali, desiderose di apparire politicamente neutrali e quindi restie a muoversi. Oggi le banche centrali sono meno autonome e il Tesoro si è ripreso alcuni spazi.

In un clima di scontro politico molto acceso (si veda il conflitto istituzionale sul controllo dei confini, scoppiato tra l’amministrazione Biden e alcuni stati repubblicani guidati dal Texas) le pressioni sulla Fed perché faccia la sua parte sono forti.
Ricordiamo Bill Dudley, ex numero due della Fed, che scrisse tre anni fa che per fermare Trump quando era al potere sarebbe stato giusto mandare gli Stati Uniti in recessione.

Va però considerato che la politica monetaria moderatamente restrittiva della Fed compensa in misura solo parziale la politica fiscale ultraespansiva dell’amministrazione Biden. L’effetto netto delle due politiche è dunque già oggi espansivo, come vediamo dai forti dati sulla crescita. La Fed, dunque, non ha bisogno di tagliare molto.

Detto questo, la Fed sarà collaborativa con l’amministrazione e diventerà velocemente e aggressivamente espansiva al primo cenno di indebolimento vero del mercato del lavoro, al primo segno di perdita di velocità dell’economia o alla prima crisi bancaria (peraltro altamente improbabile dopo le misure di sostegno alle banche decise l’anno scorso). L’anno elettorale si tradurrà quindi nel pieno ripristino dellaput della Fed, nel possibile rallentamento del Quantitative tightening (e nell’uso di strumenti che ne attenuino gli effetti) e forse in un taglio in più rispetto a quello che accadrebbe in un anno ordinario. Se però l’economia manterrà la sua crescita intorno al 2 per cento e la disoccupazione non supererà il 4 per cento difficilmente vedremo tutti i tagli che si aspetta il mercato.

La seconda tesi sostenuta da chi ipotizza tagli aggressivi è che l’economia rallenterà. Come dice l’ex Fed Claudia Sahm, i tagli vanno iniziati immediatamente, se si vuole prevenire una recessione. Finché però le possibilità di recessione rimangono modeste e simmetriche a quelle di riaccelerazione dell’inflazione, difficilmente la Fed cambierà il suo corso.

Per i mercati, che la Fed possa tagliare un po’ meno è compensato, per i bond, dal buon andamento dell’inflazione e, per le borse, dalla crescita economica migliore delle previsioni. Questo quadro strutturale positivo non giustifica corse spensierate o meltup, ovvero esplosioni al rialzo, ma la formazione di bolle in alcune aree di settori ad alto beta è probabile.

L’Europa è in ritardo rispetto all’America, ma non di molto. Le pressioni salariali, stabilizzatesi in America, sono ancora piuttosto forti, in particolare in Germania e Regno Unito. La produttività, su livelli molto buoni in America, è più bassa. La spinta della politica fiscale è meno forte. Le vicende del mercato dell’energia hanno favorito l’America e penalizzato l’Europa.
Anche le difficoltà di transito attraverso Suez, che aumenteranno se il conflitto in Medio Oriente si allargherà al Libano e coinvolgerà ancora più direttamente Hezbollah, hanno conseguenze sull’Europa e non, per ora, sull’America.

La politica monetaria europea cercherà in ogni caso di rimanere sincronizzata con quella della Fed, anche per evitare volatilità nel cambio tra dollaro ed euro.

In generale, per quello che si può vedere oggi, rimane in piedi l’ipotesi di un inizio sincronizzato dei tagli in giugno, con movimenti di 25 punti base alla volta nei mesi successivi. Vedremo movimenti di 50 punti base solo nel caso in cui imprevisti geopolitici o rallentamenti marcati del ciclo economico li rendano necessari.

Non ci attendiamo grandi ulteriori rialzi (a parte la conquista di obiettivi simbolici, come 5000 sull’indice SP 500) nella prima parte dell’anno, ma una ripresa sarà probabile in concomitanza con l’inizio del ciclo dei tagli. A fine anno sarà possibile, dopo le elezioni del 5 novembre, una fase più volatile.

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