rosso e nero
a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

APPENA SUFFICIENTE

L’Europa si tiene insieme, ma con una certa fatica

Non si è ancora asciugato l’inchiostro sul rapporto trimestrale della Commissione Europea, che abbassa le stime di crescita dell’eurozona per quest’anno e per il prossimo, ed ecco che la Bce le taglia ulteriormente. Per i tre anni 2023, 2024 e 2025 la previsione di crescita complessiva passa dal 4 al 3.2 per cento.

Non si è ancora asciugato l’inchiostro sul rapporto trimestrale della Commissione Europea, che abbassa le stime di crescita dell’eurozona per quest’anno e per il prossimo, ed ecco che la Bce le taglia ulteriormente. Per i tre anni 2023, 2024 e 2025 la previsione di crescita complessiva passa dal 4 al 3.2 per cento.

Si tratta di stime che probabilmente dovranno essere abbassate ancora, viste le ipotesi su cui si reggono. La Commissione, ad esempio, ipotizza un prezzo medio del greggio di 82.2 dollari (corretto dai 72 ipotizzati in primavera), quando siamo già oggi, per il Brent, sopra i 93 dollari.

Detto questo, anche facendo la tara a queste previsioni, chi vuole consolarsi può tornare con la memoria alla primavera del 2022, quando si sarebbe messa volentieri la firma sotto numeri con segno comunque positivo.
Quanto ai tassi, il 4 per cento come probabile punto d’arrivo della stretta monetaria è un livello equilibrato. C’è ancora crescita economica all’orizzonte, ed è quindi più che giusto pensare anche a contenere l’inflazione, che si mantiene su livelli ancora alti.

Sono infatti alcuni mesi che i mercati si sentono liberati dalla minaccia dell’inflazione, ma guardando alla realtà (sia pure con le lenti rosa della Bce) le stime della banca centrale indicano pur sempre un’inflazione complessiva di 10.7 punti percentuali per quest’anno e i prossimi due.

Questo 10.7, sommato al 14.5 complessivo dei due anni 2021 e 2022, dà una perdita di potere d’acquisto dell’eurozona di 25.3 punti percentuali tra l’inizio del 2021 e la fine del 2025.

Per fare un confronto con gli anni Settanta, uno studio del 2005 di Otmar Issing (Why Did the Great Inflation not Happen in Germany?) spiega, compiaciuto e orgoglioso, che le politiche di controllo dell’offerta di moneta da parte della Bundesbank riuscirono a contenere l’inflazione complessiva dei cinque anni 1975-79 al 20.7 per cento. Ovvero, osserviamo, quasi 5 punti in meno del periodo 2021-25.

I problemi dell’Europa, in ogni caso, più che a livello macroeconomico, sono sulle policy, in particolare quelle relative alla politica fiscale, all’energia, al commercio internazionale, agli investimenti e alla ricerca.

Sulla politica fiscale, l’affievolirsi dello stimolo creato dal Recovery Plan sarà solo parzialmente compensato dai pacchetti tedeschi per la difesa e i sussidi all’industria (tutti rigorosamente fuori bilancio per potere fare finta di avere i conti in pareggio) e si trasferirà così dalla periferia al centro.

Sull’energia, la pasticciata politica tedesca (arrivata ad abbattere impianti eolici per allargare miniere di carbone, il tutto mentre due impianti nucleari che potrebbero produrre a basso prezzo sono stati chiusi) fa sì che le emissioni aumentino mentre i prezzi, rispetto al resto del mondo rimangono alti.

Sul commercio internazionale, la religione liberoscambista che ispira il Trattato di Lisbona è ormai sostituita da politiche protezionistiche e di aiuti di stato. In astratto sono politiche che per un certo periodo potrebbero anche avere senso, ma che non tengono conto degli effetti inflazionistici (si pensi ai prezzi delle auto elettriche se venissero poste barriere a quelle cinesi) e delle ritorsioni a cui una regione esportatrice come l’Europa si esporrebbe.

Quanto agli investimenti, nonostante il crescente intervento pubblico, rimangono cronicamente bassi, in particolare nei nuovi settori tecnologici.

Pur con tutti questi problemi, i mercati azionari europei mantengono una certa forza, determinata dalla capacità delle imprese di mantenere buoni margini e dalle valutazioni contenute.

In questa fase di mercato, che ha iniziato a vedere una rotazione dai ciclici e dalla crescita verso i settori difensivi, gli assicurativi e i farmaceutici europei (in particolare svizzeri) vanno considerati come contrappeso per i titoli americani di crescita.

Il discorso vale naturalmente anche per l’America stessa. Dall’inizio di dicembre i 7 colossi della tecnologia sono saliti del 66 per cento, mentre i restanti 493 titoli che compongono l’indice SP 500 sono saliti solo del 5 per cento. È tempo che questo spread si riduca.

Quanto al contesto macro americano, gli ultimi dati confermano la forza del mercato del lavoro e dei consumi. Se questa forza continuerà nei prossimi mesi la Fed, che rimarrà ferma sui tassi il 20 settembre, considererà un nuovo rialzo in novembre o dicembre.

Larry Summers attribuisce solo un terzo di probabilità al soft landing immacolato che i mercati hanno adottato come scenario. Gli altri due terzi si dividono tra no landing (l’inflazione che si ferma al 3 e poi risale) e hard landing.

Per ora in ogni caso non si vedono segnali di hard landing e la ripresa dell’inflazione è limitata sostanzialmente al petrolio. Una certa cautela rimane però raccomandabile in considerazione delle valutazioni piuttosto generose dell’azionario americano, in particolare se confrontate con quelle del mercato monetario e obbligazionario.

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