Nella conferenza stampa di ieri la giornalista del New York Times ha chiesto a Powell se la corsa ad acquistare biglietti per il tour di Taylor Swift e per il film Barbie non siano un segno di grande salute dei consumatori e dell’economia americana.
Nella conferenza stampa di ieri la giornalista del New York Times ha chiesto a Powell se la corsa ad acquistare biglietti per il tour di Taylor Swift e per il film Barbie non siano un segno di grande salute dei consumatori e dell’economia americana.
La questione non è eccentrica come si potrebbe pensare. La domanda per Barbie è così forte che in molti si sono chiesti perché il biglietto costi solo 15 dollari. I commentatori hanno osservato che i produttori contano sul fatto che Barbie verrà visto più volte dagli appassionati. Altri hanno fatto notare che ai 15 dollari vanno aggiunti i 10 per un cestino piccolo di popcorn. Il fatto è che il biglietto del cinema, che nel 1969 costava in media 1.42 dollari e nel 2007 aveva toccato i 7.50, oggi raggiunge facilmente, a New York, i 28 dollari senza popcorn.
Quanto a Taylor Swift, il prezzo dei biglietti per i suoi concerti è stato oggetto di indagini da parte di alcune procure, di numerose interrogazioni in Congresso e di un’indagine dell’antitrust. Il tutto non ha impedito che nel novembre scorso, non appena la campagna di vendita è iniziata, ci siano state subito 15 milioni di richieste. I biglietti costano in media 150-200 dollari, ma si arriva a 1450 se si vuole un buon posto e se si vuole avere diritto a un poster e a un gingillo. Il tour andrà comunque avanti fino alla fine del 2024.
Aneddoti, si dirà. Resta il fatto che, dopo 550 punti base di rialzi dei tassi i segnali di rallentamento sono pochi, le borse continuano a salire e le materie prime sono in ripresa. Ormai da mesi, ogni volta che le banche centrali ritoccano i tassi i mercati festeggiano la fine del ciclo di rialzo. Poi c’è un nuovo rialzo e i mercati festeggiano di nuovo la fine del ciclo, e così via.
Come scrive Steven Kamin, ex Fed, con un’economia che va bene e un’inflazione ancora alta (secondo Powell si tornerà al 2 per cento solo nel 2025) alzare i tassi è un no-brainer, un’ovvietà. Il danno di un’inflazione che dovesse riprendere forza sarebbe incalcolabile, dice, mentre una moderata recessione sarebbe perfettamente accettabile.
Insomma, se si scatta una foto del presente siamo in una situazione quasi perfetta. L’inflazione scende, mentre l’economia e gli utili crescono. Che cosa si vuole di più?
Se però si proietta il quadro presente a sei mesi, tutto diventa più complicato. Se infatti tutto continuerà ad andare bene ci si troverà prima o poi di fronte a un bivio. O le banche centrali continueranno ad alzare i tassi per prevenire una ripresa dell’inflazione, o non lo faranno, correndo il rischio che l’inflazione, dopo qualche mese di discesa inerziale, riparta.
L’obiettivo massimo, naturalmente, è quello di una manovra perfetta che sgonfi l’inflazione in modo duraturo e convincente senza compromettere crescita e occupazione. Si cerca quindi di continuare a frenare evitando che l’economia vada a schiantarsi contro una roccia. Si punta invece ad alzare un muro di gomma, che freni l’esuberanza senza provocare gravi danni.
Finora è andato tutto bene. Le banche, tranne poche eccezioni, hanno retto. Non c’è un disoccupato in più rispetto a quando i tassi erano a zero. Le difficoltà dell’immobiliare sono circoscritte agli uffici, ma il resto è tutto in ripresa e la domanda di case è robusta. Il manifatturiero ha attraversato una fase difficile, in particolare in Germania, ma il peggio è probabilmente alle spalle. La Cina non ha fatto scintille, ma chiuderà l’anno vicino all’obiettivo ufficiale del piano, che prevede una crescita del 5 per cento. Il Giappone continua a premere sull’acceleratore.
Per i mercati azionari, ancora impastati di eterne attese di recessione (che anche lo staff della Fed ora esclude) è difficile resistere alla tentazione di continuare a salire.
Mancano due mesi al prossimo Fomc, ma se tutto continuerà ad andare bene un nuovo rialzo dei tassi in settembre, di cui negli ultimi giorni i mercati avevano cominciato a dubitare, tornerà possibile.
Al fondo delle questioni rimangono, irrisolte, due domande di teoria economica. La prima, cui abbiamo accennato la volta scorsa, è il ritorno in ibernazione della curva di Phillips, ovvero della correlazione tra occupazione e inflazione. Per quanto nessuno sappia più se ha ancora qualche valore predittivo, nessuno ha qualcosa con cui sostituirla. La curva di Phillips è ancora l’architrave dei modelli econometrici delle banche centrali. Qualcuno, in considerazione dei danni che potrà continuare a provocare, ha proposto provocatoriamente di metterla fuori legge.
La seconda domanda a cui nessuno sa rispondere riguarda i tempi di trasmissione della politica monetaria. Per Waller, un falco della Fed, i rialzi dei tassi hanno giù esaurito il loro effetto di raffreddamento e occorre quindi deciderne degli altri. Per le colombe, guidate da Goolsbee e Bostic, i rialzi, come afferma la dottrina tradizionale, dispiegano i loro effetti in 12-18 mesi e bisogna quindi fermarsi prima che producano una recessione seria. Per ora la questione dei tempi di trasmissione è solo un modo in codice per esprimere una posizione di politica monetaria tesa a favorire o a ostacolare l’amministrazione Biden.
Operativamente, le ultime vicende confermano che per il momento conviene ancora, nel comparto del reddito fisso, rimanere sulle redditizie scadenze a breve. Sull’azionario, gli utili del secondo trimestre, che saranno riportati per tutto agosto, continueranno a riflettere il buon andamento dell’economia nei mesi scorsi. In mancanza di ostacoli, gli indici manterranno una pressione verso l’alto, soprattutto se il rialzo diverrà più corale.
Teniamo però presente che stiamo scontando il migliore dei mondi possibili, capace di coniugare tassi in salita, inflazione in discesa e crescita costante. Il muro della Fed, abbiamo detto, sarà di gomma, ma un rallentamento lo produrrà comunque.
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist del Gruppo e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.