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a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

CRITICA DELLA RAGION VERDE (2/2)

Gli aspetti pratici della questione ambientale

Compriamo più cose quando costano meno, compriamo più titoli in borsa quando costano di più. Esiste una teoria per il primo aspetto e ne esiste un’altra per il secondo. Non esiste una teoria unificata che spieghi le due cose insieme, così come non esiste ancora una teoria unificata soddisfacente in fisica e tantomeno in climatologia. Come l’economia e come i mercati, il clima è un sistema complesso e dinamico in cui, come dice Freeman Dyson, non ha molto senso fare previsioni a 100 anni. Si è capito molto, del clima, per alcuni sottosistemi, qualcosa per altri, meno ancora per l’interazione tra i sottosistemi.

Compriamo più cose quando costano meno, compriamo più titoli in borsa quando costano di più. Esiste una teoria per il primo aspetto e ne esiste un’altra per il secondo. Non esiste una teoria unificata che spieghi le due cose insieme, così come non esiste ancora una teoria unificata soddisfacente in fisica e tantomeno in climatologia. Come l’economia e come i mercati, il clima è un sistema complesso e dinamico in cui, come dice Freeman Dyson, non ha molto senso fare previsioni a 100 anni. Si è capito molto, del clima, per alcuni sottosistemi, qualcosa per altri, meno ancora per l’interazione tra i sottosistemi.

La correlazione tra CO2 e temperatura, alla base delle teorie prevalenti sul cambiamento climatico in corso, vale per gli ultimi 100 anni e pochi dubitano che sia antropogenica, ma basta guardare un po’ più indietro nel tempo per scoprire che sono più i periodi in cui non ha funzionato (o addirittura è stata negativa) di quelli in cui ha funzionato.

Limitando l’analisi all’ultimo decimo di storia della Terra, ovvero all’ultimo mezzo miliardo di anni (quello in cui è nata e fiorita la vita vegetale e animale come la conosciamo noi), vediamo ad esempio che nel Permiano (300-250 milioni di anni fa), il periodo in cui si è formato lo shale oil che stiamo estraendo oggi, la temperatura è aumentata moltissimo, ma la CO2 è rimasta costante a 900 parti per milione.

Oggi climatologi ed ecologisti seguono le rilevazioni giornaliere di CO2 dell’osservatorio di Mauna Loa, nelle Hawaii, con la stessa trepidazione con cui noi guardiamo le chiusure di New York. Il dato odierno è di 414.67 unità per milione. Era di 315 nel 1900 e da allora sale in modo molto regolare di circa 0.80 unità all’anno. Mantenendo questo ritmo salirà a quasi 480 unità alla fine del secolo.

Nel Cretaceo (145-66 milioni di anni fa) la CO2 raggiunse alla fine le 2000 unità per milione, ma la temperatura continuò a diminuire. Fu il periodo di massima fioritura dei dinosauri e vide l’arrivo sul pianeta di noi mammiferi. Le terre emerse erano meno estese di oggi (non c’era ghiaccio e il livello del mare era più alto) ma erano coperte da una vegetazione lussureggiante, favorita dagli altissimi livelli di CO2. La vegetazione scese invece ai minimi durante la glaciazione di 18mila anni fa, quando la CO2 toccò il minimo storico di 180 unità. Se fosse scesa a 150, la vita vegetale (e quindi animale) si sarebbe estinta. A proposito di glaciazioni, se l’ipotesi di due gradi in più evoca scenari apocalittici, a che cosa si dovrebbe pensare nell’ipotesi di una Terra coperta di ghiacci e con 10 miliardi di persone da sfamare? Se il riscaldamento globale ha qualche merito, quello di ritardare e mitigare la prossima glaciazione è il maggiore.

La Grande Ossidazione, il passaggio dal predominio della CO2 a quello dell’ossigeno, richiese cento milioni di anni. Possono bastare i cento anni di industrializzazione (più gli otto che ci restano secondo le visioni più radicali) per compiere il cammino inverso? Certo, il principio di precauzione impone di rallentare la tendenza al rialzo della temperatura per verificare che non abbia effetti non controllabili, ma questo non significa automaticamente che grandi disastri siano alle porte.

Tornando alle correlazioni tra fenomeni, è evidente quella tra l’accelerazione del riscaldamento globale (che, ricordiamo, è un piccolo uptick in un megatrend di raffreddamento che dura da mezzo miliardo di anni) e la globalizzazione. Negli ultimi vent’anni, come fa notare Al Gore, l’Europa ha aumentato le emissioni (la Germania è passata dal nucleare al carbone), ma l’America le ha diminuite di altrettanto, passando dal carbone al gas naturale. Chi ha fatto impennare i livelli di CO2 sono Cina e India, grandi utilizzatrici di carbone e destinate a un forte ulteriore aumento delle emissioni. Avete fatto i vostri comodi per un secolo e mezzo, rispondono a chi le sollecita a ridurle, ora non pretendete troppo da noi.

Che ci sia un intreccio tra ambiente e globalizzazione è confermato dal Green Deal europeo, che nella lettura del Financial Times ha come nota dominante una forte componente di protezionismo, che si articola su due livelli. Il primo è l’istituzione di standard ambientali per i prodotti più importati. Il secondo è l’istituzione di una carbon border tax, che imporrebbe dazi in funzione della CO2 incorporata nei vari prodotti provenienti dall’esterno dell’Unione.

Nel suo complesso, il Green Deal è comunque importante perché aprirà la strada a interventi di politica fiscale espansiva a livello europeo. Nell’anima tedesca, l’ambiente è l’unica religione civile universale che può prevalere sul culto di stato fondato su concorrenza e pareggio di bilancio. Questi interventi, tuttavia, avranno un effetto macro espansivo più modesto di quello cui i numeri rotondi annunciati farebbero pensare. Molti fondi saranno prelevati da altre voci di bilancio e molte tasse d’uso, a partire dalla carbon tax, verranno introdotte ex novo o aumenteranno. Industrie e famiglie, d’altra parte, dovranno farsi carico di gran parte dei costi di ristrutturazione di impianti, materiali e case imposti dalle nuove normative ambientali. Come abbiamo visto in questi anni per l’auto e per l’energia tedesche, l’erosione dei margini dovuta a questi costi potrà essere rilevante.

Il vero grande cambiamento di cui gli investitori dovranno tenere conto sarà però su un altro livello, quello delle banche centrali. Nella proposta della loro stanza di compensazione, la Banca dei Regolamenti Internazionali (The Green Swan, scaricabile online), in nome dei cambiamenti climatici le banche centrali diventeranno dal 2021 (dopo le elezioni americane, non a caso) una sorta di agenzia globale che inizierà a influenzare, oltre alla politica monetaria, anche quella industriale.

Questa concentrazione di poteri muoverà molto di più dei soldi dei bilanci pubblici perché avrà a disposizione la possibilità di spostare la ricchezza privata verso certi settori e di soffocarne gradualmente altri provocando, come dice il documento, grandi dislocazioni di ricchezza. Estendendo al massimo i poteri macroprudenziali concessi loro dopo il 2008, le banche centrali imporranno alle imprese, in nome della stabilità finanziaria messa in pericolo dai cambiamenti climatici, di aggiustare i criteri di risk management e di distinguere a bilancio i green asset dai brown asset. In questo modo i 22 trilioni di brown asset fossili o inquinanti nel bilancio corporate globale (come ad esempio i diritti allo sfruttamento di riserve petrolifere) appariranno ad analisti e investitori in tutta la loro luce di beni rischiosi, perché destinati a non essere mai sfruttati o a esserlo con costi maggiorati da una forte imposizione fiscale. Lo stesso varrà, naturalmente, per l’esposizione delle banche e delle assicurazioni verso questi settori. Così del resto è morta in borsa l’industria del carbone (che sopravvive in termini operativi, ma non ha più valore di mercato) e così verranno gradualmente soppressi (o costretti a riconvertirsi) gli altri settori fossili, che verranno anche privati di finanziamenti bancari.

Da notare anche le implicazioni di politica monetaria e fiscale. Come finanziare i costi di eventi catastrofici legati ai cambiamenti climatici e le enormi spese di riconversione dell’apparato produttivo per l’uscita dal fossile? Sul primo punto si prospetta l’idea che le banche centrali si addossino il salvataggio di banche e assicurazioni coinvolte in disastri ambientali o si facciano comunque garanti delle loro passività. Sul secondo, la scelta tra tasse, creazione di nuova moneta e creazione di nuovo debito pubblico vede la Bri, un organismo tradizionalmente conservatore, orientata decisamente verso la creazione di nuovo debito.

Chi investe dovrà prendere molto sul serio l’onda verde, che in Europa ha anche una motivazione politica legata alla nuova coalizione Cdu-Grünen che si profila in Germania per il prossimo decennio. I verdi sono ormai in tutto il continente un partito di sistema e intercettano il voto in uscita dalla socialdemocrazia, impedendo che si riversi su forze antagoniste. In America l’onda verde è cavalcata da tutta la finanza vicina ai democratici e sarà un fattore decisivo anche con una eventuale seconda amministrazione Trump.

Uscire dal fossile ed entrare nel verde andrà fatto prima che il verde vada in bolla. Il fossile, dal canto suo, creerà trappole di valore e i suoi bassi prezzi e alti rendimenti favoriranno il delisting, la cessione a compagnie di paesi emergenti e al private equity o le nazionalizzazioni più di quanto non favoriscano l’investitore retail.

Solare ed eolico saranno probabilmente energie di transizione. All’orizzonte si affacciano il nucleare al torio e il nucleare di fusione (pulito, sicuro e a buon mercato) che la Cina ha iniziato recentemente a utilizzare. E poi, su fronti più tradizionali, ci sono gli idrati di metano, eventualmente decarbonizzati. Il mondo, che negli anni Settanta temeva una crisi energetica terminale, si trova ora a disporre in prospettiva di energia praticamente infinita, ma è proprio per questa sovrabbondanza che potrà permettersi di scegliere certe fonti piuttosto che altre.

La risposta all’onda verde di sinistra è l’onda verde di destra, il trilione di nuovi alberi seminati a bassissimo costo da droni che permetterebbe di continuare a usare le energie fossili perché la CO2 verrebbe riassorbita dalle nuove foreste. È l’idea di Davos, del WWF e di Trump. È un’idea suggestiva, ma come investitori suggeriamo di considerare soprattutto la prima onda, perché gli alberi (sempre che li si pianti davvero) richiederanno comunque qualche anno per crescere, mentre le normative o sono già in vigore o vi entreranno presto.

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