Gli anni Settanta sono ricordati come il decennio orribile dell’economia e dei mercati, in particolare per il crollo del sistema di Bretton Woods, la svalutazione del dollaro, i due shock petroliferi del 1973-74 e 1979-80 e l’inflazione che contrassegnò tutto il decennio.
Gli anni Settanta sono ricordati come il decennio orribile dell’economia e dei mercati, in particolare per il crollo del sistema di Bretton Woods, la svalutazione del dollaro, i due shock petroliferi del 1973-74 e 1979-80 e l’inflazione che contrassegnò tutto il decennio.
Domanda a bruciapelo. Quale fu l’inflazione media degli anni Settanta negli Stati Uniti? A. Il 9 per cento. B. Il 13 per cento. C. Il 16 per cento.
In realtà fu solo del 6.8 per cento, come notò Alan Blinder in uno studio del 1982 (Anatomy of Double-Digit Inflation in the 1970s, disponibile in rete), che letto oggi offre una miniera di spunti di riflessione. Come termine di confronto, il CPI di ottobre 2021 è stato del 6.2 per cento.
Con il senno del poi, l’aspetto più interessante di quel periodo non fu tanto la studiatissima esplosione dell’inflazione, quanto l’insieme delle risposte che si provarono a dare al problema. Per un decennio, in pratica, si tentarono con tenacia e fantasia tutte le strade tranne l’unica che avrebbe offerto una soluzione, una stretta monetaria. Si dovettero aspettare l’arrivo di Paul Volcker alla Fed, il feroce rialzo dei Fed Funds (che arrivarono al 20 per cento nel giugno 1981) e due recessioni una dietro l’altra per sfebbrare il sistema e avviare il quarantennio della disinflazione.
Prima, dicevamo, si era provato di tutto. Aveva iniziato subito Nixon, che accompagnò la svalutazione del dollaro dell’agosto 1971 con il blocco di prezzi e salari per 90 giorni. Si andò avanti con controlli intermittenti sui prezzi fino al 1974. Si provò a razionare la benzina, ma non si riuscirono ad evitare le lunghe code alle stazioni di rifornimento. Le immagini di quelle lunghe file divennero presto un simbolo di quegli anni.
Con l’arrivo di Ford alla Casa Bianca dopo il Watergate, al keynesismo pasticciato di Nixon subentrò un approccio più classicamente conservatore. Lasciamo che il mercato si aggiusti come può, si pensò, e facciamo appello al civismo degli americani affinché ognuno, in prima persona, imprese e privati, combatta la tentazione di aumentare i prezzi. Si promosse il carpooling e si invitarono i cittadini ad abbassare il livello dei termostati di casa e a iniziare a coltivare verdura in giardino. Vennero distribuiti distintivi, bottoni, borse e oggettistica varia con il marchio WIN (Whip Inflation Now) nella speranza di motivare le persone. Quando me ne parlarono pensai che si trattava di un’idea incredibilmente stupida, avrebbe scritto più tardi Greenspan.
Jimmy Carter arrivò a consultare anche i leader religiosi per cercare idee per raddrizzare un’economia fuori controllo. Per tre anni fu sul punto di riuscirci, ma la seconda crisi energetica mandò tutto per aria e lo indusse a reintrodurre il controllo del prezzo dei carburanti.
Secondo i calcoli di Blinder, le varie fasi di controllo dei prezzi ebbero un effetto iniziale positivo, abbassando l’inflazione di un punto. Questo punto fu però recuperato, aggiungendosi all’inflazione sottostante, ogni volta che il controllo veniva abolito. In pratica, gli interventi dall’alto si limitarono a spalmare l’inflazione tra i vari anni ma non riuscirono a contenerla.
Si potrebbe oggi pensare che in quei tempi i policy maker erano degli sprovveduti travolti dagli eventi, ma non è così. Milton Friedman era consigliere di Nixon e inorridì a sentire parlare di controllo dei prezzi, ma Nixon aveva priorità politiche e preferiva soluzioni estemporanee, tra cui il telefonare di notte al governatore della Fed per urlargli di non alzare i tassi.
Oggi naturalmente è tutto diverso e per fortuna l’economia cresce bene (crebbe però anche per lunghi periodi degli anni Settanta, del 15 per cento complessivo tra il 1975 e il 1978), ma alcuni interventi sintomatici sull’inflazione, in sostituzione di politiche monetarie meno espansive, ricordano quegli anni. L’amministrazione Biden che vende alla chetichella le scorte strategiche di petrolio per abbassarne il prezzo, la Yellen che accetta un dollaro sempre più forte per deprimere le materie prime, la Cina che annuncia di continuo provvedimenti contro gli speculatori, Biden che sgrida le società petrolifere, l’Europa che fiscalizza gli aumenti dell’energia, le dichiarazioni sull’inflazione transitoria, ecco di nuovo la creatività dei cerotti e dell’aspirina per tenere lontano non solo il chirurgo (che nessuno invoca, ci mancherebbe) ma anche, semplicemente, uno stile di vita leggermente meno rischioso.
Ma tant’è. Si è deciso di non ripetere l’errore del decennio scorso (un sostegno timido all’economia che ha portato prima a una crescita debole e poi a Trump) e si è disposti a rischiare l’errore opposto (che alla fine può portare di nuovo a Trump, vista l’impopolarità dell’inflazione).
Giustamente l’ex-Fed Roberto Perli ci ricorda che l’inflazione, l’anno prossimo, potrà sorprendere anche al ribasso e non solo al rialzo. Anche negli anni Settanta, aggiungiamo noi, ci furono due anni al tre per cento. Furman, Summers e Blanchard, tuttavia, provano a chiedersi quante probabilità ci siano per uno scenario favorevole che giustifichi la pazienza della Fed e concludono che ce ne sono, ma non così tante.
Perché quello che sta facendo la Fed abbia senso, dicono, occorre che si verifichino insieme quattro condizioni. In primo luogo occorre che la domanda aggregata scenda di suo l’anno prossimo. Poi occorre che il tasso di partecipazione della forza lavoro salga in misura consistente (ovvero che molti di quelli che hanno rinunciato a lavorare durante la pandemia tornino al lavoro, in modo da rendere il mercato meno tirato). Occorre poi che le strozzature sul lato dell’offerta si risolvano entrò la metà del 2022. Infine, bisogna che la forza lavoro accetti l’impoverimento derivante dall’inflazione e rinunci a chiedere adeguamenti retributivi, mettendo in moto la spirale tra prezzi e salari.
Se faccio il prodotto delle probabilità che si verifichi ognuna di queste condizioni, osserva Blanchard, la conclusione è che la Fed deve stringere. Il paper di Furman (What the Federal Reserve should do now) è disponibile sul sito del Peterson Institute.
Per concludere, due osservazioni per chi investe. La prima è che non è prudente pensare che l’inflazione scenda molto nei prossimi anni (Wells Fargo la prevede al 5.2 per il 2022). Se succederà, come è ancora possibile, saremo tutti contenti, ma è meglio organizzarsi per tempo nel caso non succeda. La seconda è che le banche centrali aspetteranno ancora alcuni mesi prima di rivedere, se sarà, il caso, la strategia della pazienza. Finché questo non accadrà e finché ci sarà un buon livello di crescita, le borse rimarranno sostenute e orientate al rialzo.
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist del Gruppo e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.