rosso e nero
a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

IL CAMPO VISIVO

Non ci sono solo l’inflazione e la crescita

Quando si va dall’oculista, da una certa età in avanti uno degli esami che vengono prescritti più di frequente è quello del campo visivo. Si fissa un puntino al centro di uno schermo luminoso e si devono individuare, con la coda dell’occhio, i segnali luminosi che appaiono per un tempo brevissimo alla periferia dello schermo.

Quando si va dall’oculista, da una certa età in avanti uno degli esami che vengono prescritti più di frequente è quello del campo visivo. Si fissa un puntino al centro di uno schermo luminoso e si devono individuare, con la coda dell’occhio, i segnali luminosi che appaiono per un tempo brevissimo alla periferia dello schermo.

Da più di due anni i mercati fissano con la massima attenzione il punto al centro del loro campo visivo. Questo punto è rappresentato dall’inflazione, misurata ormai al centesimo in più di venti modi diversi, scomposta e ricomposta instancabilmente in modi sempre più creativi.

Intorno al punto centrale, i mercati riescono a inquadrare bene anche la crescita economica. Il flusso di dati è continuo, in particolare nel manifatturiero.

Inflazione e crescita hanno mandato in questi mesi segnali positivi ben al di là delle previsioni. Anche i dati americani di oggi confermano questa tendenza incoraggiante. La produttività del lavoro è in ripresa e il costo del lavoro per unità di prodotto fa registrare un aumento molto contenuto.

Concentrati sull’inflazione e sulla crescita, bond e azioni hanno da alcuni mesi mantenuto una forza notevole. I bond hanno tenuto le loro posizioni scontando la fine del ciclo di rialzo dei tassi. Le borse si sono avvicinate ai massimi storici festeggiando, oltre alla discesa dell’inflazione, l’accelerazione della crescita.

Tutto legittimo, nella sostanza. Tuttavia, nel concentrarsi su questi due punti, sono sfuggiti alcuni punti luminosi apparsi alla periferia dello schermo. Non sono sfuggiti del tutto, naturalmente, ma è come se i segnali raccolti dall’occhio non siano poi stati elaborati e quindi scontati nei prezzi come meritavano.

Uno di questi segnali è l’ampio disavanzo fiscale che permane, soprattutto in America, nonostante il pieno impiego e la buona crescita. È un disavanzo che quest’anno supererà il 6 per cento del Pil e arriverà all’8 se si includono i costi per la cancellazione di una parte dei debiti universitari.

Questo disavanzo non è un prolungamento inerziale degli enormi stimoli del 2020-2022. È qualcosa di perseguito in piena consapevolezza dall’amministrazione Biden. In caso di conferma nel 2024, del resto, l’amministrazione continuerà senza esitazioni su questa strada. Non sono in ogni caso solo i democratici ad avere allentato i freni inibitori sulla spesa pubblica. I repubblicani, che 10 anni fa erano sul punto di essere egemonizzati dal Tea Party e dai suoi richiami a una radicale disciplina fiscale, sono oggi molto lontani da quello spirito. Se torneranno l’anno prossimo a controllare il Congresso, il loro programma prevederà qualche spesa in meno rispetto a quello di Biden, ma anche meno tasse.

Il risultato è che oggi in America non c’è un solo uomo politico che osi proporre una riforma di previdenza e sanità se non per aumentarne i costi. Le spese militari sono d’altra parte intoccabili e potranno solo crescere, così come gli investimenti pubblici per transizione energetica e alta tecnologia.

Per finanziare queste spese che si estendono a perdita d’occhio su tutto il decennio, il Tesoro dovrà emettere debito. Se negli anni passati una parte importante delle emissioni veniva assorbita dalla banca centrale, oggi, in una fase di Quantitative tightening, tutto il nuovo debito andrà a pesare sul mercato. Oltre all’aspetto strutturale, che si estenderà ai prossimi anni, c’è in queste settimane la pressione aggiuntiva del fabbisogno che non si era potuto finanziare durante lo scontro sul tetto all’indebitamento. Perfetta quindi la tempistica del declassamento del debito americano da parte di Fitch.

Fino a oggi i mercati hanno considerato il disavanzo pubblico dal suo lato positivo, quello del sostegno alla domanda aggregata e alla crescita. Ora si accorgono che c’è anche un costo. Proprio mentre molti accarezzavano l’idea di spostarsi sulla parte lunga della curva per profittare della fine del ciclo di rialzo dei tassi, ecco che arrivano quantità ingenti di titoli da collocare e i bond, invece di apprezzarsi, perdono terreno.

Le vicende del mercato obbligazionario non sono l’unico elemento che induce a pensare a una pausa nel grande ciclo di rialzo azionario che si è aperto nell’ottobre scorso. Con un’economia americana che, dopo il rallentamento di giugno, ha ripreso a correre in luglio a una velocità annualizzata (misurata dalla Fed di Atlanta) del 3.9 per cento, la Fed non si farà troppi problemi ad alzare ancora i tassi in settembre. L’inflazione scende, certo, ma con un mercato del lavoro così forte e con il petrolio in ripresa c’è comunque da prevenire una riaccelerazione dei prezzi. Anche il posizionamento e il sentiment fanno pensare a una pausa.

In conclusione, invece del temuto raffreddamento, abbiamo di nuovo, nonostante il rialzo dei tassi, segnali di surriscaldamento. Per ora le banche centrali si mantengono dietro la curva, ma questo non significa che non vogliano prevenire eccessi.

L’anno è ancora lungo e prima che finisca si tornerà ad apprezzare la buona crescita e l’inflazione moderata. Per qualche settimana sarà però meglio mantenere una certa prudenza.

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