rosso e nero
a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

IL DIBATTITO DELLA CUCINA

Geopolitica e disinflazione alla base del recupero

Nell’autunno del 1959, per cercare di abbassare la tensione che era andata crescendo nei due anni precedenti dopo il lancio in orbita dello Sputnik e la paura americana di essere stati superati tecnologicamente, Stati Uniti e Unione Sovietica organizzarono due esposizioni commerciali, una russa a New York e una americana a Mosca.

Nell’autunno del 1959, per cercare di abbassare la tensione che era andata crescendo nei due anni precedenti dopo il lancio in orbita dello Sputnik e la paura americana di essere stati superati tecnologicamente, Stati Uniti e Unione Sovietica organizzarono due esposizioni commerciali, una russa a New York e una americana a Mosca.

Nixon, allora vicepresidente, accompagnò Khrushchev nella sua visita al padiglione americano a Mosca. La visita era ripresa dalle televisioni e i due leader, pur in un clima volutamente disteso, si lanciarono varie frecciate che sono passate alla storia come il dibattito della cucina.

Fu infatti davanti a una cucina modello, allestita per l’occasione con tanto di lavastoviglie e frigorifero, che Nixon celebrò la liberazione della donna americana dalla schiavitù domestica e l’ampia accessibilità economica delle abitazioni anche per le famiglie a basso reddito. Khrushchev, davanti a uno spremilimoni elettrico, replicò spazientito che si faceva prima a spremere a mano, che i progressi della donna sovietica erano ben maggiori e che la casa, da loro, era garantita a tutti.

Dopo 64 anni, in effetti, possiamo ben dire che le distanze tra America e Russia, almeno per quanto riguarda la casa, si sono ridotte. Nel 1960 il costo medio di una casa americana era di 12mila dollari, una volta e mezza il reddito medio annuo. Oggi è di 314mila dollari, quasi quattro volte il reddito medio. In Russia, d’altra parte, la coabitazione di più famiglie nello stesso appartamento, diffusa in era sovietica, è finita, mentre le khrushchevka, le case popolari prefabbricate degli anni Sessanta, vengono demolite e sostituite.

Ma non è questo il punto, bensì il fatto che, nonostante gli incontri ancora più amichevoli tra Khrushchev e Kennedy nel 1961, nell’ottobre del 1962, tre anni dopo il dibattito della cucina, l’installazione dei missili sovietici a Cuba fece precipitare il mondo nella crisi geopolitica più grave del dopoguerra.

È quindi con le dovute cautele che va visto l’incontro tra Biden e Xi. Come nel 1959 Nixon e Khrushchev si scambiavano battute mentre il loro arsenale nucleare raggiungeva le sue massime dimensioni, così oggi Cina e America cercano di ripristinare canali di comunicazione mentre le portaerei americane affollano i mari cinesi e mentre continuano ad aumentare le spese militari di Pechino.

È però innegabile che dalla geopolitica stiano arrivando segnali di non volontà, da parte dei protagonisti, di alzare ulteriormente il livello dello scontro. A Taiwan cambiano i pronostici elettorali e il partito indipendentista sembra ora avviato alla sconfitta. L’Iran e Hezbollah prendono qualche distanza da Hamas. Israele non allarga il conflitto. In Ucraina la guerra non va oltre certi limiti precisi e si comincia a pensare a una via d’uscita.

I mercati, tra agosto e fine ottobre, avevano cominciato a mettere a fuoco due fattori negativi che non rientravano nella narrazione precedente, imperniata su inflazione e rischi di recessione. I due fattori erano l’apertura di un nuovo fronte di guerra nel Levante e il possibile squilibrio tra domanda e offerta di debito governativo per effetto degli ampi disavanzi pubblici in molti paesi.

Negli ultimi giorni molte cose hanno però assunto una luce diversa. Oltre alla geopolitica, di cui abbiamo detto, ci sono stati un programma di emissioni meno pesante del previsto da parte del Tesoro americano, dati incoraggianti sull’inflazione e segnali di atterraggio morbido da parte dell’economia e del mercato del lavoro americani.

Intendiamoci, i problemi strutturali rimangono tutti ancora saldamente al loro posto. Il mondo unipolare è in crisi e il passaggio a una struttura multipolare continuerà a essere pieno di rischi nel medio e lungo periodo. Gli ampi disavanzi fiscali si estendono sull’orizzonte a perdita d’occhio, anche se la ripresa dei mercati genererà imposte sui capital gain che li attenueranno. L’economia americana passa da surriscaldata a tiepida, ma non è ancora chiaro se e quanto il processo di raffreddamento continuerà.

Nel breve termine, in ogni caso, è giustificato che i mercati prendano atto dei miglioramenti visibili e del fatto che questi possano generare un circolo virtuoso. Un atteggiamento costruttivo, se si esclude l’ipotesi di una recessione, è dunque possibile sia per l’azionario sia per l’obbligazionario. In caso di recessione, l’obbligazionario di qualità ha ovviamente una possibilità in più. Per il momento, in ogni caso, lo scenario di base esclude la recessione, ma proprio per questo immaginare una rapida sequenza di tagli dei tassi già dalla prima metà dell’anno prossimo è un eccesso di ottimismo.

Certo, se si profilerà una recessione le banche centrali dichiareranno conclusa la loro battaglia (anche con l’inflazione al 3 per cento) e taglieranno. Se però la recessione, come ci sembra, non ci sarà, le banche centrali si concederanno il lusso di provare a riconquistare anche l’ultimo miglio, ovvero a raggiungere il 2 per cento. In cambio di qualche mese in più di tassi alti, infatti, porteranno a casa un quasi completo recupero di credibilità che potrà tornare molto utile nella seconda parte del decennio.

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