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a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

IL GRIGIO E IL VERDE

La rinascita dell’auto tedesca

Il verde, in Germania, ha radici profonde. Il paganesimo delle tribù germaniche è a sfondo contemplativo e naturalistico, mentre il paganesimo italico preromano e romano ha un fondo magico e strumentale (i sacrifici in cambio di qualcosa, la stessa logica salvifica delle indulgenze della chiesa romana contro cui Lutero organizzerà la sua chiesa tedesca). Il medioevo tedesco è mistico, quello italiano, a parte Francesco, riscopre Aristotele. L’illuminismo francese è il trionfo dell’intelletto, il romanticismo tedesco quello del cuore.

Il verde, in Germania, ha radici profonde. Il paganesimo delle tribù germaniche è a sfondo contemplativo e naturalistico, mentre il paganesimo italico preromano e romano ha un fondo magico e strumentale (i sacrifici in cambio di qualcosa, la stessa logica salvifica delle indulgenze della chiesa romana contro cui Lutero organizzerà la sua chiesa tedesca). Il medioevo tedesco è mistico, quello italiano, a parte Francesco, riscopre Aristotele. L’illuminismo francese è il trionfo dell’intelletto, il romanticismo tedesco quello del cuore.

Il ruralismo è una delle basi del movimento Völkisch che, partendo dal romanticismo, attraversa l’Ottocento tedesco. Il Völkisch è terra e sangue, è etnico, nazionalista e vagamente antiborghese. La rivoluzione conservatrice di Jünger porta il modernismo nel Völkisch e aggiunge l’acciaio alla terra e al sangue. Il nazionalsocialismo riprende tutto e mantiene uno spiccato amore per la natura, totalmente assente nel modernismo fascista.

Nella fase finale della Guerra Fredda, che allora sembra a tratti preludio a una guerra calda, l’anima verde tedesca vira a sinistra (rimane a destra in Austria) e abbraccia, sotto la guida di Petra Kelly, un pacifismo radicale dai toni sinceramente apocalittici e antiamericani. L’attenzione all’ambiente è limitata allora alle piogge acide che minacciano le bellissime foreste tedesche e alla lotta alle centrali nucleari, ma il vero obiettivo (condiviso con la Ddr, che infiltra il movimento) è lo smantellamento dei missili puntati contro l’Unione Sovietica che Reagan sta installando in Germania.

Reagan va avanti lo stesso e piega i sovietici, preparando il terreno all’unificazione tedesca. I Verdi si concentrano allora per molti anni sul nucleare, un altro tema che tocca le corde della sensibilità apocalittica dell’anima tedesca. Quando al potere sale la Merkel, sempre abilissima a portare via temi e idee agli avversari, la Cdu si sposta subito a sinistra, togliendo spazio ai socialdemocratici, e successivamente fa suo l’obiettivo di smantellare il nucleare.

È una scelta che danneggia economicamente la Germania e che la avvia verso un decennio di grave disordine energetico e di improvvisazione pagata con un raddoppio del costo dell’energia elettrica per gli utenti, ma è una scelta politicamente vincente, perché toglie spazio ai Verdi, che si sono nel frattempo imborghesiti fin dai tempi di Joschka Fischer e che quindi cominciano a fare una pericolosa concorrenza elettorale alla Cdu.

I Verdi iniziano allora a dedicarsi ai cambiamenti climatici e, in concreto, alla lotta all’auto, il grande feticcio della generazione uscita dalla povertà del dopoguerra, l’orgoglio dell’industria, la colonna portante delle esportazioni dopo il ritiro tedesco da gran parte dei settori di punta della tecnologia. L’industria dell’auto, tradizionalmente appoggiata dalla Spd e consapevole del suo peso politico, alza per molti anni le spalle. I suoi ingegneri sono cresciuti in mezzo ai motori a combustione interna e li hanno portati alla perfezione. L’elettrico, per loro, è una cosa da muletto di magazzino o al massimo da filobus. I suoi manager vivono di rendita sul magnifico brand, sono adulati dalla stampa, corteggiati dai politici locali di Baviera, Baden e Bassa Sassonia e lasciati tranquilli dai sindacati. Il grande mercato cinese sembra offrire possibilità illimitate che compensano ampiamente le disavventure in terra americana.

Ma tutte le cose belle finiscono e verso la metà del decennio scorso i nodi vengono al pettine tutti insieme. L’America attacca l’auto tedesca in tutti i modi già dai tempi di Obama con normative antiemissioni sempre più stringenti. Trump minaccia per anni dazi pesanti che non vengono attuati, ma fanno improvvisamente apparire fragile e antieconomica la filiera produttiva dell’auto tedesca. I produttori con le spalle al muro non trovano di meglio che falsificare i dati sulle emissioni e vengono prontamente puniti con la massima severità, proprio mentre Musk lancia l’auto elettrica cool.

La Cina resta un grande mercato, ma diventa un concorrente sempre più agguerrito e si converte aggressivamente all’elettrico a tappe forzate, protetto in prospettiva da normative antiemissioni ancora più stringenti di quelle californiane.

In casa, intanto, i Verdi martellano sul diesel. I produttori reagiscono presentando il diesel pulito, un gioiello tecnologico, ma è troppo tardi. Diesel, come nucleare, è diventato una parola impronunciabile. La Merkel, che per qualche tempo aveva coperto e aiutato sottobanco l’industria, fiuta nell’aria l’insostenibilità politica di quella linea e la cambia radicalmente, cercando di togliere ai Verdi un altro tema.

Ancora una volta il prezzo economico della scelta politica è alto. I produttori di auto chiudono gli impianti per avviare di malavoglia la riconversione all’elettrico, la manifattura tedesca entra in recessione già due anni prima di Covid. Ai produttori tocca spendere una montagna di soldi proprio mentre il ciclo economico globale appare maturo e i mercati si chiudono uno dopo l’altro.

La Merkel guadagna consensi con la sua linea, ma la recessione la costringe a rivalutare l’importanza del mercato interno europeo e a cambiare atteggiamento verso l’Italia per salvare l’eurozona. Il Recovery Fund sarà anch’esso figlio di questa revisione strategica.

Abbandonata da tutti, e in particolare dagli investitori, l’industria dell’auto tedesca, dopo avere mangiato molta polvere e picchiato la testa contro tutti i muri possibili, capisce che l’adesione all’elettrico deve essere totale. Prendere tempo non funziona più, bisogna al contrario accelerare il più possibile. Nel farlo, prende coraggio, vede che la sua forza ancora imponente può produrre una riconversione radicale e ben organizzata e che le sue migliaia di eccellenti ingegneri, una volta convinti della strada da percorrere, possono ben competere con l’agile e geniale Musk e con il suo impero luccicante ma non consolidato.

Mentre sull’orizzonte d’autunno si profila il primo cancelliere verde nella storia della Repubblica Federale (anche se la strada è ancora lunga e un’estate di vaccinazioni può restituire consensi alla Cdu) i produttori tedeschi annunciano imponenti progetti su batterie innovative, una riconversione aggressiva dei nuovi modelli e il ripristino dei margini di profitto pre-Covid. Nessuno può sapere oggi chi vincerà nel mercato globale dell’auto elettrica, ma mentre tra gli attori c’è un maggiore equilibrio, nelle valutazioni di borsa c’è uno sbilanciamento senza precedenti tra gli innovatori della prima ora e quelli che lo stanno diventando. Il mercato, già in luna di miele con i ciclici, sembra averlo notato se è vero che il Dax, dall’inizio dell’anno, va meglio del Nasdaq.

Concludiamo con due riflessioni. La prima è che l’orientamento crescente degli investitori verso i temi ambientali ha finora premiato soprattutto gli innovatori nati verdi. Con il passare del tempo crescerà però il numero degli elefanti grigi che nell’arco di un decennio diventeranno verdi (verdi dentro, non solo in superficie). I primi, i nati verdi, manterranno qualche vantaggio in considerazione della loro agilità, ma a favore dei secondi giocheranno le valutazioni contenute e la quota storica di mercato da cui partire. Fra 10-15 anni, del resto, quasi tutti saranno verdi con l’eccezione di una riserva indiana di grigi che avranno dividendi alti ma quotazioni basse destinate a restare tali.

La seconda riflessione è che il risveglio tedesco, ora poco visibile all’esterno per la cattiva gestione della pandemia e per l’atmosfera opaca da fine regno nella Cdu, potrà indurre la Germania a ritornare almeno in parte sui suoi passi nelle sue aperture al resto d’Europa e a dichiarare terminata già dall’anno prossimo la ricreazione monetaria, fiscale e regolatoria apertasi con Covid. È un rischio da non escludere anche nel caso di una cancelleria verde, che sarà forse più morbida nei toni ma non necessariamente nella sostanza. Difficilmente, in ogni caso, si avrà un ripristino completo dell’ortodossia. Da una parte ci sarà la politica espansiva americana a impedirlo (attraverso una pressione al rialzo sull’euro se l’Europa non sarà altrettanto espansiva). Dall’altra, di fronte alla guerra fredda tra Stati Uniti e Cina che continuerà a lungo, la Germania dovrà continuare ad apprezzare l’importanza strategica del mercato interno europeo.

Venendo al breve, Powell si conferma arcicolomba, ma lascia una certa libertà di movimento alla parte lunga della curva. Vedremo quindi i tassi salire ancora nei prossimi mesi, ma li vedremo anche ridiscendere più avanti nell’anno quando apparirà chiaro che il 2022 avrà meno crescita e borse meno esuberanti. Per ora rimanere investiti.

 

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