Si sta facendo strada l’idea che adottare sanzioni economiche sempre più severe contro la Russia non sia il modo più efficiente per aiutare l’Ucraina. Certo, con le sanzioni l’Occidente evita di entrare direttamente in guerra, ma paga esso stesso un costo molto alto che abbiamo appena cominciato a vedere. Armare l’Ucraina fino ai denti e dotarla di armi di ultima generazione costa alla fine di meno e infligge più danni alle operazioni russe, costringendole in molti settori sulla difensiva.
Si sta facendo strada l’idea che adottare sanzioni economiche sempre più severe contro la Russia non sia il modo più efficiente per aiutare l’Ucraina. Certo, con le sanzioni l’Occidente evita di entrare direttamente in guerra, ma paga esso stesso un costo molto alto che abbiamo appena cominciato a vedere. Armare l’Ucraina fino ai denti e dotarla di armi di ultima generazione costa alla fine di meno e infligge più danni alle operazioni russe, costringendole in molti settori sulla difensiva.
È questo, probabilmente, l’argomento in questo momento più credibile per sostenere che l’inflazione potrebbe da qui in avanti decelerare. Si consideri infatti l’alternativa, quella di sospendere completamente gli acquisti occidentali, e in particolare europei, di energia russa. Il danno diretto all’economia europea sarebbe severo, con una recessione prolungata e con la perdita irreversibile di interi settori produttivi, ma l’esplosione dei prezzi sarebbe globale.
Per verificarlo, basta osservare quello che sta già succedendo oggi sul petrolio. Il mondo produce e consuma la stessa quantità di greggio che produceva e consumava prima della guerra, ma la chiave inglese gettata con le sanzioni nel complesso ingranaggio delle linee di trasporto globali che portano il petrolio dai luoghi di produzione a quelli di raffinazione e di consumo sta producendo un aumento dei costi di trasporto quasi pari a quello che già si stava verificando sul petrolio stesso.
Come nota Zoltan Pozsar, una petroliera russa che portava il suo carico da San Pietroburgo ad Amburgo impiegava, andata e ritorno, due settimane. Lo stesso carico, dirottato verso la Cina, richiede quattro mesi. Più lungo è il tempo di trasporto, più alto è il numero di petroliere che nello stesso tempo devono stare in mare. Purtroppo le petroliere in più che servirebbero non esistono (e non si fabbricano in una settimana) per cui la concorrenza per noleggiarne una ne fa salire il costo. Un viaggio più lungo, in tempo di guerra, è anche più rischioso e questo fa salire il costo per la copertura assicurativa, quello delle navi militari che devono scortare la petroliera nei punti più pericolosi e quello degli oneri finanziari da pagare alle banche per anticipare il capitale necessario all’operazione.
Problemi russi o cinesi, si dirà. Non esattamente, perché la Germania che accoglieva il petrolio russo dopo il suo breve viaggio dal Baltico al Mare del nord dovrebbe ora andarlo a cercare molto più lontano, con conseguenze simili sui suoi costi finali. Insomma, anche senza danni diretti alla produzione, lo sconvolgimento della filiera dei trasporti globale basta da solo a creare inefficienza e inflazione. Lo stesso meccanismo, naturalmente, va a colpire non solo il petrolio ma tutte le materie prime agricole e industriali che solcano i mari del mondo.
Rallentare l’escalation delle sanzioni può dunque contenere la quantità di combustibile che alimenta l’inflazione. Lo stesso effetto dovrebbe produrlo il graduale venire meno degli effetti dei colossali stimoli fiscali e monetari del 2020-21.
Un passo avanti, dunque, ma non ancora la soluzione del problema. Certo, dal punto di vista dei mercati vedere l’inflazione che scenderà nei prossimi mesi dall’8-9 per cento al 4-5 per cento sarà motivo di grande sollievo e verrà debitamente registrato con recuperi delle borse. Il problema verrà dopo, quando ci si chiederà tutti quanti (la Fed per prima) se fermarci lì, evitando una recessione, o proseguire verso il 2 e rischiare grosso.
Per il momento, con la Fed ancora a 0.50, tutto il gran parlare di recessione che si sente in giro sembra prematuro ed esagerato. È vero, l’inflazione erode il potere d’acquisto e quindi i consumi. In più, dal lato della produzione, c’è stato in alcuni settori un accumulo eccessivo di scorte (dettato dal buon andamento dei consumi l’anno scorso e dall’ottimismo delle imprese sul dopo-Covid) che andranno smaltite nei prossimi mesi. Il Covid, d’altra parte, è vivo e vegeto e continua a fare danni, come vediamo in Cina. Detto questo, il mondo dei servizi, che crea tre quarti di Pil, è in ripresa.
Al di là degli aspetti congiunturali, tuttavia, è il tema strutturale della ripresa degli investimenti produttivi a essere trascurato nella narrazione della recessione imminente. Questa ripresa ha essenzialmente tre cause.
La prima è la ripresa degli investimenti privati in tecnologia e in nuovi impianti produttivi. Anche senza arrivare a sostenere, come fa Russell Napier partendo dalla vicenda russa, che il valore terminale dei capitali occidentali investiti in Cina è zero, il ritorno a casa della produzione spostata nei due decenni passati in Cina (il reshoring o, come lo chiama la Yellen, il friendshoring in paesi alleati) comporta sempre una forte riduzione di manodopera e un parallelo aumento della spesa in tecnologia. E se anche si lascia in Cina quello che c’è, tutti i nuovi investimenti verranno da qui in avanti posizionati in Occidente.
La seconda è che accanto a quella dei privati, c’è una spinta ancora più forte da parte degli investimenti pubblici, dal militare alla tecnologia, con dotazioni di fondi particolarmente aggressive che si dispiegheranno nell’arco di tutto il decennio e sosterranno il ciclo economico.
La terza, che riprendiamo da Ben Hunt, è che, come i tassi bassi del decennio scorso hanno favorito la pigrizia delle imprese (che hanno preferito impiegare la liquidità a buon mercato per acquistare azioni proprie invece che in investimenti produttivi), così i tassi alti che si profilano all’orizzonte e gli attacchi ai margini derivanti dall’aumento del costo del lavoro spingeranno le imprese a investire in macchinari e tecnologia. L’ipotesi può apparire controintuitiva (i tassi bassi furono pensati nel decennio scorso proprio per spingere a investire) ma l’esperienza, finora, ne prova la correttezza.
In sintesi, per le borse la situazione non è meravigliosa, ma non è nemmeno compromessa. È semplicemente in grande movimento e, come sempre, il movimento crea nuovi rischi ma anche nuove opportunità.
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist del Gruppo e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.