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a cura di Alessandro Fugnoli, Strategist

L’ETÀ DELL’INSTABILITÀ

Pensare in grande porta a grandi rischi

Keine Experimente, keine Abenteuer. Niente esperimenti, nessuna avventura. Con queste parole d’ordine Adenauer vinse le elezioni tedesche del 1957 e fu confermato cancelliere. Lo stesso spirito che animava l’Europa occidentale dopo le follie dei decenni precedenti (volare basso, piedi per terra, prudenza e moderazione) soffiava, negli anni Cinquanta, negli Stati Uniti di Eisenhower.

Keine Experimente, keine Abenteuer. Niente esperimenti, nessuna avventura. Con queste parole d’ordine Adenauer vinse le elezioni tedesche del 1957 e fu confermato cancelliere. Lo stesso spirito che animava l’Europa occidentale dopo le follie dei decenni precedenti (volare basso, piedi per terra, prudenza e moderazione) soffiava, negli anni Cinquanta, negli Stati Uniti di Eisenhower.

Pur essendo la guida di quello che veniva allora chiamato il mondo libero, gli Stati Uniti esercitarono il loro potere con senso della misura, evitarono attacchi frontali contro l’Unione Sovietica, rispettarono gli accordi di Yalta e scartarono subito l’ipotesi di utilizzare armi atomiche durante la guerra di Corea. Dal canto loro, anche le politiche economiche, in quel periodo, privilegiarono la stabilità, il controllo dell’inflazione e il contenimento dei livelli di indebitamento.

Anche il decennio scorso, visto con gli occhi di oggi, è stato un periodo di prudenza e moderazione. Obama è stato eletto in un clima di rinnovamento messianico, ma la sua gestione è stata fin da subito piuttosto cauta. Sul piano internazionale la sua amministrazione ha puntato sul multipolarismo e sulla convivenza con la Cina, mentre sul piano interno ha scelto di rinunciare a parecchi punti di crescita di Pil per puntare sul contenimento del disavanzo pubblico, sulla ricapitalizzazione delle banche e su un’inflazione molto bassa.

Che cosa ha portato al capovolgimento di prospettiva dopo queste due fasi storiche, gli anni Cinquanta e gli anni Dieci? Che cosa ha indotto ad abbandonare la prudenza che le ha caratterizzate e a lanciarsi su una strada di esperimenti all’inizio vissuti come affascinanti, ma nel tempo rivelatisi rischiosi e avventurosi?

Tre fattori accomunano e spiegano la transizione dalla stabilità alla turbolenza nei due casi che stiamo considerando.

Il primo, geopolitico, è la sensazione americana (e di riflesso di tutto l’Occidente) di stare perdendo la leadership globale sul piano tecnologico, militare, economico e politico. La sensazione di essere scavalcati dall’Unione Sovietica alla fine degli anni Cinquanta e dalla Cina sessant’anni più tardi ha prodotto un primo livello di paura, per non dire di panico.

Il secondo fattore è stato la perdita di controllo interno dovuta all’emergere di movimenti sociali e culturali di dissenso negli anni Sessanta e di una sorda e diffusa rivolta antielitaria, incanalata dal trumpismo, nella seconda parte degli anni Dieci.

Il terzo fattore è stato il diffondersi nel mainstream istituzionale, accademico e intellettuale di una stanchezza per i vincoli, gli equilibri, le regole di prudenza e di una voglia crescente di volare alto, osare, pensare in grande, sperimentare strade nuove, spingere sull’acceleratore e non più sul freno. Dalla Nuova Frontiera con cui Kennedy vince le elezioni del 1960 al Think Big di Biden nel 2020, l’allargarsi degli orizzonti fa sì che alla paura di restare nell’immobilismo si accompagni il sogno di un mondo nuovo.

Gli anni Sessanta vedono allora un’esplosione di spesa per la corsa alla Luna, per il welfare state della Big Society, per la guerra in Vietnam. Per qualche anno sembra che si possa fare tutto senza conseguenze, poi arrivano l’inflazione, il deterioramento delle partite correnti, la svalutazione del dollaro, la caduta dell’azionario e dei bond. Alla fine arrivano anche due crisi energetiche a dare il colpo di grazia.

Oggi vediamo fenomeni in parte diversi, ma, almeno in superficie, ci sono analogie con quel periodo che è difficile non considerare. C’è una guerra, che per ora non costa certo come quella del Vietnam, ma che non sappiamo quanto durerà (anche il Vietnam partì con un costo economico basso e alla fine arrivò a costare tre punti di Pil all’anno di spese aggiuntive per la difesa). C’è una crisi energetica meno acuta ma più strutturale di allora. C’è un mercato del lavoro tirato, almeno negli Stati Uniti, che permette ai salari di rincorrere i prezzi e all’inflazione di mettere radici.

Ci sono poi politiche monetarie e fiscali che hanno già speso molto di quello che potevano spendere (e in modo non certo ottimale) e che da qui in avanti, se vorranno essere ancora di sostegno all’economia, produrranno altra inflazione.

La differenza rispetto agli anni Settanta è che le tensioni che si sono prodotte negli ultimi due anni, per quanto eccezionalmente forti, non hanno ancora avuto il tempo di diventare irreversibili. Il Think Big di Biden si concentra ora sulla politica internazionale, ma sul piano interno è già ridimensionato e verrà ulteriormente depotenziato se i repubblicani fra pochi mesi si riprenderanno il Congresso. La crisi energetica, per fortuna, non è dovuta a carenza di fonti disponibili nel pianeta (come si pensava negli anni Settanta) ma a scarsi investimenti e scelte sbagliate, ovvero cose che richiederanno tempo per essere corrette ma che non sono definitive.

Pensare in grande in momenti di emergenza è spesso l’unica soluzione possibile. Detto questo, trattare il Covid come un’emergenza economica maggiore della seconda guerra mondiale, cercare a tutti i costi la piena occupazione fino a creare un surriscaldamento del mercato del lavoro, sostenere fino all’ultimo che l’inflazione è bella e non frenare nel 2021 quando l’economia era lanciatissima sono errori che creeranno instabilità per alcuni anni a venire. E a questo aggiungiamo la guerra.

Sui mercati instabilità significa aumento del premio per il rischio, volatilità e corsa agli asset reali. L’aumento del premio per il rischio nelle circostanze attuali è un atto dovuto e gli investitori non possono che subirlo. La volatilità non significa solo discese ma anche risalite veloci e violente. La corsa agli asset reali non significa che questi non saranno soggetti a bear market, ma che alla fine, come dimostra l’esperienza degli anni Settanta, si comporteranno meglio del cash e dei titoli di debito.

Sopportare la volatilità, diversificare nei settori sui quali pioveranno grandi quantità di investimenti pubblici (difesa, energia), concentrarsi sui crediti di migliore qualità, mantenere solo la tecnologia che genera profitti e che cresce stabilmente sono tutti fattori che dovrebbero aiutare ad attraversare il periodo di assestamento che si profila all’orizzonte.

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