Il Mount Sinai Hospital di New York ha una storia lunga e gloriosa. Fondato nel 1852, ebbe modo di distinguersi già pochi anni dopo nella cura dei feriti durante la sanguinosa Guerra di Secessione. Verso la fine della Grande Guerra un suo reparto fornì assistenza ai soldati colpiti da polmonite e influenza spagnola. Tra le due guerre mondiali accolse numerosi medici ebrei profughi dall’Europa e rafforzò ulteriormente la qualità del suo staff. Divenuto ospedale universitario, si è distinto negli anni per la ricerca e l’innovazione e oggi viene valutato al quattordicesimo posto nella classifica dei 5000 ospedali americani.
Il Mount Sinai Hospital di New York ha una storia lunga e gloriosa. Fondato nel 1852, ebbe modo di distinguersi già pochi anni dopo nella cura dei feriti durante la sanguinosa Guerra di Secessione. Verso la fine della Grande Guerra un suo reparto fornì assistenza ai soldati colpiti da polmonite e influenza spagnola. Tra le due guerre mondiali accolse numerosi medici ebrei profughi dall’Europa e rafforzò ulteriormente la qualità del suo staff. Divenuto ospedale universitario, si è distinto negli anni per la ricerca e l’innovazione e oggi viene valutato al quattordicesimo posto nella classifica dei 5000 ospedali americani.
Piange il cuore sentire che anche lì, in un centro di eccellenza della capitale morale e finanziaria dell’Occidente, dove i magnati si strappano di mano attici da cento milioni di dollari, gli infermieri si fanno ritrarre in sacchi neri della spazzatura per denunciare la carenza di mezzi di protezione dall’epidemia dopo che un capoinfermiere, infettato, ha perso la vita.
Quello che l’Occidente sta mostrando in queste ore sul piano sanitario è un colossale fallimento di sistema sul quale ci interrogheremo a lungo. E non è questione di privato o di pubblico, di accentrato o decentrato. Al di là dell’abnegazione e dell’eroismo dei tanti che si stanno prodigando, è il sistema che ha fallito, dormendo per due mesi pur potendo assistere in tempo reale alla tragedia cinese e continuando anche oggi ad annaspare per obiettivi minimali come trovare mascherine e ventilatori.
L’Oriente, si dice, ha reagito meglio perché aveva fresco il ricordo della Sars. Negli Stati Uniti e in Europa la Sars si manifestò con poche decine di casi, non fece vittime e non lasciò segno.
In compenso l’Occidente ha vissuto sulla sua pelle la Grande Recessione del 2008-2009 ed è per questo che, sul piano economico e finanziario, la sua reazione alla crisi attuale è all’altezza della situazione in America e migliore di quello che ci si poteva aspettare (anche se ancora palesemente insufficiente) in Europa. La Cina, per contro, quasi non si accorse del 2008 e il 2009 fu un anno di fortissima crescita trainata da investimenti pubblici.
Sarà per questo che la risposta economica cinese al Covid-19 è stata più misurata e che la borsa di Shanghai (anche grazie agli interventi di sostegno) non ha mai mostrato segni di panico e perde meno del 10 per cento dall’inizio dell’anno.
È difficile cogliere in tutta la sua grandiosità la massa degli interventi economici già decisi in America. C’è in primo luogo un Quantitative easing illimitato (che al momento si traduce in mezzo trilione alla settimana dedicato ad acquisti di titoli del Tesoro e ad altri interventi a sostegno della liquidità). Ipotizzando acquisti di Treasuries simili a quelli seguiti alla Grande Recessione il bilancio della Fed potrebbe facilmente raddoppiare e passare dal 20 al 40 per cento del Pil. Niente di inesplorato, qui, la Bce era già sopra il 40 prima che scoppiasse l’epidemia.
Accanto agli interventi monetari ci sono poi quelli fiscali. I due trilioni in via di approvazione in Congresso includono misure di sostegno per le famiglie e prestiti agevolati a settori in crisi. Ma la parte che piace di più ai mercati è quel mezzo trilione che verrà verosimilmente decuplicato dalla Fed e che verrà destinato alla costituzione di veicoli misti Tesoro-Fed (il Tesoro l’equity, la Fed il debito finanziato con creazione di base monetaria) che acquisteranno vari strumenti monetari e obbligazionari con scadenza fino a 5 anni. Sarebbero, a regime, quasi 5 trilioni di sostegno al mondo obbligazionario. In totale, tra fiscale e monetario, siamo nell’ordine di grandezza, solo in America, della decina di trilioni.
In Europa, al momento siamo molto più indietro, con un trilione di Qe sul lato monetario (cui vanno aggiunti i rifinanziamenti per le banche), e meno di due trilioni di misure fiscali decise a livello nazionale. Le misure tedesche, in particolare, sono razionali e astute. Razionali perché, con la nuova garanzia pubblica sui crediti, le banche possono tenere in vita le imprese che, a loro volta, possono continuare a pagare gli stipendi sui quali i dipendenti continueranno a versare le tasse. In questo modo tutto il circuito economico rimane in piedi come prima anche se è fermo. Le misure sono anche astute perché le garanzie sui crediti bancari (mezzo trilione di euro) non creano debito pubblico aggiuntivo ma sono contingent liabilities (il debito verrà contabilizzato se e quando i crediti garantiti non saranno più esigibili).
La pioggia di trilioni da una parte e l’esaurirsi delle vendite da panico con il manifestarsi dei primi segni di stabilizzazione hanno creato negli ultimi giorni un movimento di segno opposto, un’urgenza di entrare nel mercato da parte degli investitori più liquidi, tra cui quelli che avevano abbandonato i mercati prima della grande galoppata finale del bull market tra settembre e febbraio. Questi compratori sono ovviamente benvenuti, perché l’ultima cosa di cui ha bisogno l’economia globale in questo momento è un avvitamento dei valori finanziari che acceleri l’ondata deflattiva e l’uscita di scena di molti operatori economici.
Ci limitiamo allora a tre avvertimenti per i compratori.
Il primo è che, tra il virus e i trilioni, è il virus ad avere l’ultima parola, almeno finché è in fase ascendente. E vista l’impreparazione con cui lo si sta affrontando e le radici che ha ormai messo tra noi, è difficile pensare che se ne vada in tempi brevi. Certo, impareremo faticosamente a riorganizzarci e ci irrobustiremo psicologicamente. Come le generazioni precedenti andavano a scuola o al lavoro sotto i bombardamenti, noi riprenderemo prima o poi ad andare a lavorare in metropolitana in mezzo ai virus, ma la propensione a consumare e a investire rimarrà depressa per qualche tempo. Non aspettiamoci quindi un rialzo definitivo già per le prossime settimane e puntiamo piuttosto su un range di oscillazione decoroso.
Il secondo avvertimento deriva dalle scelte che vanno facendo i policy maker. Il loro messaggio è questo. Faremo molto, anche di più che nel 2008, ma non salveremo tutti. Così come negli ospedali ci dedicheremo soprattutto ai più giovani, così, tra i debitori, salveremo i migliori più qualcuno che ci è particolarmente caro, ma non tutti. Bene quindi gli investment grade (finché le agenzie di rating li manterranno tali), bene le banche e le linee aeree che ci sono care, al freddo il resto.
Il terzo avvertimento è comportamentale. Non si compra qualcosa perché è sceso di prezzo, ma perché si pensa che salirà. C’è una bella differenza. Andrà bene anche comprare quello che offre un buon dividendo, ma bisognerà prima valutare se lo manterrà.
Abbiamo fatto tre avvertimenti, ma non facciamo il quarto, che sentiremo spesso nelle prossime settimane. Il quarto avvertimento dice che, per risalire, il mercato ha comunque bisogno di un’ultima fase di capitolazione, di una resa senza condizioni firmata nel più desolato e disperato degli stati d’animo. È un concetto simmetrico a quello degli ottimisti a oltranza, che in un bull market già maturo e forse esausto vedono sempre la possibilità di un’ultima grande fiammata. Non è stato vero in febbraio al rialzo e non è detto che sia vero al ribasso nei prossimi mesi.
In pratica, quindi, continuiamo a pensare che il compratore razionale, in questo contesto così fluido, farà bene a non rincorrere i rialzi e a distribuire gli acquisti nell’arco, come minimo, dei prossimi tre mesi. Con un occhio attento a quello che compra, perché non tutti saranno salvati.
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist del Gruppo e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.