Si sa che i virus subiscono, più velocemente degli altri viventi, mutazioni genetiche. Ma anche gli uomini cambiano nelle loro reazioni psicologiche e politiche alle epidemie.
Si sa che i virus subiscono, più velocemente degli altri viventi, mutazioni genetiche. Ma anche gli uomini cambiano nelle loro reazioni psicologiche e politiche alle epidemie.
Si può essere storici degli anni Cinquanta e Sessanta, si possono vincere cattedre di storia di quel periodo ignorando tranquillamente tutto sull’epidemia di influenza asiatica del 1957-58 e sulla sua ricomparsa, con mutazioni dello stesso ceppo, nel 1968-69. Al contrario, la pandemia di coronavirus del 2020 sarà sicuramente citata nei libri di storia del 2080, se non altro per il suo impatto sull’economia, sul costume e forse, staremo a vedere, sulla storia degli Stati Uniti e dell’Occidente.
Eppure i morti di asiatica furono, secondo le stime dell’Oms, due milioni (di cui 70mila negli Stati Uniti), contro i meno di 3mila, fino a questo momento, del coronavirus. E un altro milione (di cui 38mila negli Stati Uniti) perse la vita nella ricomparsa del 1968-69. Tutte cifre, si noti bene, da aggiungere alle vittime dell’influenza ordinaria, abbastanza costanti negli anni.
Le due ondate partirono dal sud della Cina, dalle regioni tuttora povere al confine con la Birmania, si allargarono a Hong Kong e Singapore, città aperte, e da qui si diffusero per il mondo. Il ciclo completo della pandemia durò quasi un anno, la fase acuta, in Europa e in America, fu in estate-autunno nel 1957 e tra gennaio e febbraio nel 1969. Curiosamente, al contrario di oggi, furono gli ultrasettantenni a salvarsi. Li aiutò la memoria immunologica della spagnola del 1918-19, quella che aveva coperto ogni centimetro quadrato del pianeta facendo dai 50 ai 100 milioni di morti.
La borsa di New York non dette particolare peso alle due pandemie, che coincisero, nella loro fase americana, con una discesa del 10 per cento del Dow Jones nel primo caso e del 5 nel secondo. Nessuno attribuì i cali di borsa alle pandemie. Nel 1957 stava infatti iniziando una recessione, provocata da una stretta della Fed nei due anni precedenti. Nel gennaio-febbraio 1969 il mercato si trovò a fare i conti con una Fed che aveva appena iniziato una virata restrittiva per arginare l’inflazione che stava cominciando ad apparire preoccupante.
Sul piano della storia delle mentalità, d’altra parte, la paura per l’influenza negli anni Cinquanta va messa in scala con quella per l’olocausto nucleare, allora in cima alle preoccupazioni collettive. Quanto al 1969, l’epidemia cadeva in una fase di grande turbolenza per i conflitti razziali e per la guerra in Vietnam, che in quattro anni fece più morti americani della pandemia.
Perché allora oggi diamo così tanto peso economico e politico al coronavirus?
Le ragioni sono tante. Mezzo secolo fa l’informazione era monopolio di stato in Europa e oligopolio di sistema negli Stati Uniti. Tutto veniva filtrato e levigato. L’Asia era un soggetto economico o chiuso nel suo isolamento assoluto (Cina) o irrilevante. Negli anni Cinquanta Singapore era una sonnolenta cittadina senza finanza, Corea e Giappone erano economie piccole ancora ripiegate su se stesse.
Il mondo era poco globalizzato, le filiere produttive erano nazionali e la temporanea chiusura di una filiera non si ripercuoteva sulle altre. Il mondo della finanza era anch’esso chiuso e piccolo e i fondi pensione, tutti cassettisti, erano gli unici soggetti rilevanti nel mercato. La leva era quasi sconosciuta.
Oggi siamo in teoria più efficienti, ma in realtà più fragili. La ridondanza è scomparsa e ha ceduto il posto all’ottimizzazione, che richiede la sopravvivenza del solo produttore più efficiente e la scomparsa degli altri. E così scopriamo che le mascherine si producono solo in Cina e che quando ne abbiamo bisogno la Cina se le tiene per sé.
Quanto alla politica, basta avere letto i Promessi Sposi per capire che dalle epidemie ne esce sempre male, oscillando sempre e ovunque tra la minimizzazione per salvare altre priorità (la guerra dei Trent’anni nel Seicento, il Pil oggi) e la reazione draconiana che spaventa l’opinione pubblica e produce danni economici ingenti. Lo sbarco del coronavirus negli Stati Uniti, già iniziato, rischia di essere la buccia di banana su cui un Trump che ha finora superato ogni ostacolo rischia di scivolare. E se scivola Trump quando il suo avversario è Sanders, è il corso della nostra storia che può cambiare.
Il ribasso attuale delle borse, del 10 per cento, può apparire sufficiente a chi ha ansia di entrare o rientrare nel mercato. Ricordiamo però che avrebbe potuto accadere, anche in assenza di epidemia, per il semplice sovraccarico di posizioni rialziste dopo sei mesi di corsa senza sosta. Per avere un punto realistico di rientro bisogna aspettare che il livello di allarme in America raggiunga almeno quello che stiamo vivendo oggi in Italia, dove peraltro i casi, a ben vedere, sono ancora pochi.
Nulla vieta ai particolarmente impazienti di cominciare a entrare subito, naturalmente. Chi entra ora, però, deve essere pronto a sopportare due mesi di dati macro in declino e un primo trimestre di dati corporate non certo brillanti. Si consideri anche quello che sta accadendo in queste ore in Cina, dove al rientro al lavoro in alcune regioni corrisponde, come si poteva immaginare, una recrudescenza dell’epidemia.
Quanto all’arrivo su un cavallo bianco del vaccino e delle banche centrali, perché il vaccino sia effettivamente disponibile per il pubblico occorrerà un anno. Quanto alle banche centrali, alla fine faranno qualcosa (e anche molto, se combinato con le politiche fiscali), ma non subito. La Bce è paralizzata e la Fed, per rimangiarsi la tesi ufficiale che tutto sta andando per il meglio, ha bisogno di vedere almeno qualche dato negativo. Certo, la disponibilità tedesca a un limitato stimolo fiscale in Europa va nella giusta direzione e anche in Asia ci si sta muovendo. Parliamo però di politiche di stimolo alla domanda in un momento in cui, con le fabbriche e gli uffici chiusi o a lavoro ridotto, è in corso prima di tutto uno shock da offerta. Il rilancio monetario e fiscale avrà quindi effetto a epidemia conclusa, ora c’è solo l’effetto annuncio.
Prudenza e pazienza, dunque. Prudenza perché non si possono escludere rischi di coda seri (una recessione globale) se l’epidemia dovesse protrarsi nel tempo e diffondersi ulteriormente nello spazio. Pazienza perché ci saranno varie false partenze (la prima c’è già stata) prima di quella vera, che comunque arriverà.
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist del Gruppo e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.