Nei due anni dell’era pandemica, il 2020 e il 2021, l’economia cinese sarà cresciuta di più del 10 per cento. Sono stime del Fondo Monetario e potrebbero anche essere riviste al rialzo nei prossimi mesi.
Nei due anni dell’era pandemica, il 2020 e il 2021, l’economia cinese sarà cresciuta di più del 10 per cento. Sono stime del Fondo Monetario e potrebbero anche essere riviste al rialzo nei prossimi mesi.
Si possono trovare delle ombre nella crescita cinese. Per comprare il 10 per cento di crescita è stato necessario aumentare il debito complessivo, già superiore a tre volte il Pil, del 25 per cento. Si è ritornati ai vecchi metodi di stimolo, edilizia e infrastrutture, con il prevedibile risultato di quartieri nuovi di zecca che rimarranno disabitati per molto tempo e ferrovie ed aeroporti in mezzo al nulla che resteranno per sempre sottoutilizzati. Non si sono stimolati i consumi, che sono tornati a scendere come quota del Pil nonostante la retorica sul doppio modello di crescita, interna ed esterna. Molta crescita è stata ispirata dal vecchio modello sovietico, dove il governo fissa gli obiettivi e le grandi società statali, finanziate dalle grandi banche statali, si mettono a produrre senza sapere se venderanno o se si gonfieranno semplicemente le scorte.
Una parte rilevante della crescita cinese è stata poi dovuta all’esplosione delle esportazioni ed è stata merito, o demerito, nostro. Mentre la Cina dell’era pandemica continua a finanziare la produzione, Europa e America finanziano i consumi. Se tutti i monopattini sono prodotti in Cina e noi sussidiamo i monopattini, noi finiamo col sussidiare e sostenere l’economia cinese.
La diversa risposta alla crisi (produzione di cose in Cina e produzione di liquidità in Occidente) ha portato correttamente a una rivalutazione importante del renminbi. Un anno fa a quest’epoca occorrevano 7.1 renminbi per comprare un dollaro, oggi ne bastano 6.45. La rivalutazione non c’è però stata nei confronti dell’euro, rispetto al quale il renminbi è sugli stessi livelli di inizio 2020 nonostante le esportazioni cinesi verso l’Europa siano quasi il doppio delle nostre verso la Cina. Questo significa, per inciso, che l’investitore europeo in titoli governativi decennali cinesi, oltre a percepire un molto stabile 3.15 per cento di interesse (contro lo 0.50 negativo che deve pagare sui Bund) ha ancora, davanti a sé, la possibilità di un apprezzamento del renminbi.
Con tutti i limiti che abbiamo visto, il confronto tra Cina e Stati Uniti nel biennio pandemico è impietoso. L’America, alla fine del 2021, tornerà finalmente sui livelli di Pil di fine 2019. Più dieci in Cina e zero in America tra 2020 e 2021 significa che l’apertura della guerra fredda con la Cina (dieci anni fa partner di crescita, poi concorrente e oggi ufficialmente avversario economico e strategico) non procede nel migliore dei modi. Il ritorno alla normalità che ci auguriamo nei prossimi mesi ridurrà la divergenza nei ritmi e nelle modalità di crescita, ma poiché l’Occidente continuerà a produrre liquidità abbondante almeno fino a metà decennio, continueremo anche a finanziare la crescita e l’occupazione del nostro supposto avversario geopolitico.
E l’Europa? L’Europa tornerà sui livelli pre-Covid solo nel 2022. La Lagarde ha confermato oggi che il quarto trimestre è stato negativo e che la contrazione proseguirà nel primo trimestre in corso. Nonostante questo, gli acquisti di titoli pubblici del programma Pepp resteranno al di sotto del limite stabilito in dicembre.
L’Italia tornerà per ultima ai livelli di Pil del 2019 e lo farà, secondo Banca d’Italia, solo nel 2023. Si noti che il Pil del 2019 era lo stesso del 2011 che, calcolato pro capite, era poi lo stesso del 2001.
Se il Pil, con l’eccezione della Cina, sarà a fine anno sui livelli di due anni prima, perché le borse sono già oggi sopra i livelli di inizio 2020? Perché i tassi, si risponde, sono molto più bassi di allora. E perché i tassi sono più bassi? Per Covid, naturalmente. Ma le stime scontano un’uscita imminente da Covid, giusto? Corretto. Ma se saremo presto fuori da Covid i tassi risaliranno ai livelli pre-Covid e a quel punto non dovremmo rivedere anche le borse su quei livelli? Sbagliato.
L’asimmetria con cui dovremo fare i conti ha due ragioni. La prima è che, a parità di Pil, gli utili saranno più alti, soprattutto in America. L’ottimo andamento della tecnologia e la crescita della produttività e dell’efficienza che ogni recessione porta con sé saranno più forti, almeno per qualche tempo, dell’aumento della pressione fiscale sulle imprese da parte della nuova amministrazione. La seconda, ancora più rilevante, è che per un lungo periodo i tassi non accompagneranno al rialzo la ripresa del Pil.
Un tempo, quando le recessioni erano superficiali, le banche centrali iniziavano ad alzare i tassi appena iniziava la ripresa. Da un decennio all’altro, le recessioni sono diventate sempre più pesanti e le banche centrali hanno lasciato passare prima mesi e poi un numero crescente di anni prima di iniziare a normalizzare i tassi. Il processo di normalizzazione, dal canto suo, è stato a sua volta sempre più lento e lungo e, in pratica, non è mai stato completato.
Questa volta abbiamo la prospettiva di cinque anni di tassi a zero qualunque crescita faccia segnare il Pil. Un modico grado di libertà verrà lasciato ai tassi a lungo termine, ma solo in America. Con il Pil in crescita e i tassi immobili per volontà politica non importa, ai mercati, che cosa farà l’inflazione. L’inflazione in accelerazione sarà anzi, per qualche tempo, una ragione in più per comprare beni reali.
Come è successo nei primi anni seguiti alla recessione del 2008, i prossimi due -tre anni saremo bombardati da studi che prevedono inflazione e, questa volta, anche da qualche dato reale che convaliderà le previsioni. Le banche centrali alzeranno le spalle e lo stesso dovranno fare gli investitori, almeno nei primi anni. Il tempo per preoccuparsi sul serio sarà più avanti.
Detto questo, i mercati non saranno privi di volatilità, soprattutto quando saremo usciti dall’emergenza. E anche nell’emergenza, come abbiamo visto in settembre, ci sarà spazio per qualche correzione. Non ci sarebbe da stupirsi troppo se gli eccessi attuali di ottimismo si dovessero tradurre già nelle prossime settimane in una modesta discesa dei corsi. Da marzo, tuttavia, sarà in dirittura d’arrivo il primo dei due pacchetti fiscali della nuova amministrazione americana. Si tratta, nel loro insieme, di un 5 per cento del Pil, meno di quello che è stato speso l’anno scorso, ma comunque una cifra imponente.
Per questa ragione le correzioni in questa fase non dovranno essere temute come segnali di inversione di tendenza, ma saranno invece occasioni di acquisto.
In Kairos da gennaio 2010, è Strategist del Gruppo e autore de “Il Rosso e il Nero”, newsletter finanziaria settimanale di strategia d’investimento.
Ha iniziato la sua carriera come Account Executive presso Merrill Lynch Milano; dal 1987 al 1989 ha lavorato per Gestnord Fondi come Direttore Investimenti e dal 1989 al 1994 per Caboto Group nella ricerca macro, strategica e quantitativa.
Nel 2001 ha ricoperto presso Abaxbank il ruolo di Head of Research and Investment Strategist.
Laurea in Filosofia presso l’Università Statale di Milano.